Cultura è Salute

L’Arteterapia tra simbolo e sintomo
di MASSIMO LANZARO

Massimo Lanzaro
Psichiatra, Psicoterapeuta

Ho tenuto tempo fa una relazione dal titolo è “Panico e alessitimia”, ma forse il titolo completo avrebbe dovuto essere “Panico, alessitimia, arte e fotografia”. Questa è una riflessione che mi attraversa da più di una decina d’anni. La prima volta che ho pubblicato qualcosa su questa idea è stata sulla rivista “Anima Mundi” edita da Reale Pantheon nel 2006 quindi sono più di dieci anni che cerco di essere parlato da questo discorso (come avrebbe forse detto il compianto Carmelo Bene).

Che cos’è l’alessitimia? Fu Sifneos nel 1973 a usare il termine alessitimia “alfa privativa”, “mancanza di” parole, del “logos” per le emozioni, per esprimere le emozioni e più precisamente il consenso in letteratura è difficoltà di identificare le emozioni, i sentimenti, e di distinguerli dalle sensazioni somatiche, difficoltà nel descrivere e comunicare le emozioni e i sentimenti alle altre persone. Cosa importante, processi immaginativi limitati e stile cognitivo orientato esternamente, questo è il costrutto dell’alessitimia.

L’alessitimia è uno dei fattori in grado di aumentare la suscettibilità generale alla malattia, perché negli alessitimici le emozioni (e le relative immagini) non trasformate, non verbalizzate attraverso le rappresentazioni simboliche e l’espressione verbale sarebbero “scaricate” nel corpo attraverso o i percorsi autonomici o quelli ormonali, l’ipofisi, oppure – negli anni Ottanta è nata la psiconeuroendocrinoimmunologia – condizionando il sistema immunitario.

L’attacco di panico si presenta come un periodo preciso d’intensa paura o di disagio durante il quale almeno quattro dei seguenti sintomi si devono sviluppare e raggiunge un picco, un parossismo, in dieci minuti: palpitazioni, sudorazione, tremori fini, dispnea, sensazione di asfissia o di soffocamento, dolore o fastidio al petto, nausea, sensazione di sbandamento, derealizzazione, depersonalizzazione, paura di perdere il controllo, paura di morire, parestesie (cioè i formicolii), i brividi o vampate di calore. Il disturbo di panico è quando gli attacchi di panico diventano ricorrenti e s’istaura la cosiddetta paura, il timore di averne altri.

Il dio Pan (in greco antico: Πάν, Pán) era, nelle religioni dell’antica Grecia, una divinità non olimpica dall’aspetto di un satiro, fallico, legata alle selve, alla pastorizia e alla natura. L’etimologia di panico è legata a Pan, uno dei tanti dei che abbiamo “trascurato” e che sono diventati sintomi: le immagini interiori represse si esprimono attraverso il sintomo. Nella mia riflessione propongo questo continuum tra il sintomo diabolico (“dia ballo”: conflittualità, tirare verso direzioni opposte) del panico e dall’altra parte il simbolo (“dia ballon”, il simbolo, l’immagine, se vogliamo numinosa, “guaritrice”).

James Hillman, allievo prediletto di Jung credeva in una “base poetica della mente” che collega indissolubilmente psicologia ed estetica, così come indagare se stessi ed immaginarsi. Significa mettere a fuoco le cose con una visione poetica, rivelandone le profondità (ricordo l’aforisma di Racamier: gli schizofrenici diventano fuoco per paura di avvicinarlo). Personalmente credo che non vi sia mezzo migliore per fare ciò, per creare simboli che la macchina fotografica.

Ora, procedendo in continuum nell’analisi di questo fenomeno a cui ho accennato prima, ho immaginato che un successivo gradino fosse individuabile nell’arte estrema contemporanea. Esempio, le foto scioccanti di Franco B, artista performer italo-britannico, che si faceva tramortire, torturare (adesso glielo hanno impedito, ha smesso alla fine degli anni Novanta). Perché faceva queste cose? Perché produceva queste immagini? Da un lato lui mimava le limitazioni che il corpo manifesta in alcune situazioni, ma diceva: “prima che il sintomo si prenda il mio corpo lo esprimo volontariamente, esprimo la mia sofferenza, produco immagini che sono una critica dell’istituzione sociale, inverto i processi di somatizzazione e produco io le figure (di Pan, tra l’altro) prima che lui s’impadronisca di me. Io non ho più paura di mostrare le mie vergogne. Non ho timore di esprimere attraverso le immagini il mio stato affettivo”.

Ribadisco: da un lato il simbolo-simbolico nell’arte e nella fotografia, dall’altro il sintomo-diabolico (“dia-ballo”) la disintegrazione, la non integrazione dell’alessitimico. Penso alla foto di Chris Burden che si fece famosamente crocifiggere su una Volkswagen, simbolica critica all’ottica capitalista, e alle foto di tutti gli artisti viennesi che fecero parte del Teatro delle Orge e dei Misteri di Hermann Nitsch. Tra i body art performer c’è stata Yōko Ono, la moglie del compianto John Lennon, che nel 1964 fece una performance che si chiamava Cut Piece, s’inginocchiò sul palcoscenico e chiese al pubblico di tagliarle i vestiti mentre lei rimaneva impassibile. Valy Export nel 1968 a Vienna prese un suo amico, gli mise un collare e lo portò a spasso per il centro tenendolo al guinzaglio, alludendo ovviamente (e simbolicamente) ad una concezione di soggezione dell’uomo.

Margaret Naumburg, psicoanalista e seguace di Freud, considerata la fondatrice dell’Arteterapia in America (Art Therapy), scrive: “Il processo dell’arte terapia si basa sul riconoscere che i sentimenti e i pensieri più profondi dell’uomo, derivati dall’inconscio, raggiungono l’espressione di immagini, più che di parole”. Qui si potrebbero ricordare le basi immaginali della psicologia della Gestalt. Tali immagini esprimono i conflitti e in questa nuova veste appaiono più comprensibili, e quindi, più facilmente risolvibili. Un’altra fondatrice dell’Arteterapia è Edith Kramer, contemporanea della Naumburg, la quale considera l’immagine/opera d’arte come un “contenitore di emozioni” e l’atto stesso del creare come terapeutico di per sé.

A conferma di quanto argomentato concludo le parole di Krauss (1983): “Le fotografie vengono scattate nel luogo in cui il contenuto fisico esiste davvero (oppure la sua forma simbolica appare o e strutturata in modo da apparire). Una fotografia di una casa userà come contenuto qualche rappresentazione fisica di una casa. Poiché l’arte-terapia si basa su soggetti interiori esteriorizzati e la foto-terapia dipende da soggetti esterni interiorizzati, parrebbe che esse abbiano a che fare con aspetti differenti del simbolismo (sun-ballo) personale”. Anche un modo insomma per “esorcizzare” i propri demoni (dia-ballo) interiori. In fondo questo è quello che cerca di fare anche il sottoscritto con la fotografia, un lavoro alchemico di estrazione e selezione per ricavare immagini, che fanno emergere la ricchezza o il senso di particolari esperienze della vita (che altrimenti rimarrebbero inespresse o peggio represse), insomma un procedimento auto-terapetico, se vogliamo.