4 Luglio 2025
Il valore delle alleanze tra istituzioni sanitarie e culturali
Nel campo della salute mentale, la possibilità di costruire percorsi terapeutici che vadano oltre i confini dell’intervento clinico tradizionale è oggi una necessità sempre più riconosciuta. In questo senso, le collaborazioni stabili tra istituzioni sanitarie e culturali rappresentano un’opportunità preziosa: non semplici cornici occasionali per attività estemporanee, ma alleanze strutturate in grado di generare continuità, fiducia e visione condivisa.
La convenzione tra la ASL Roma 1 e la Galleria Borghese è un esempio virtuoso di questa prospettiva. All’interno di questo accordo, medici, psicologi, educatori e operatori possono immaginare e realizzare percorsi di cura che si snodano tra sale museali, laboratori artistici, atelier e spazi di bellezza. Qui, l’arte non è solo contenuto, ma dispositivo relazionale, occasione di ascolto, specchio emotivo, strumento di espressione e trasformazione.
Federico Russo, psichiatra e membro del Comitato Scientifico di Cultura è Salute, ci restituisce in questo articolo l’esperienza intensa e ricca della visita alla mostra di Caravaggio insieme ai pazienti di un servizio territoriale della ASL Roma 1. Un racconto che non è solo testimonianza, ma anche invito a pensare la cultura come parte integrante e generativa dei percorsi di cura. (ED)
La buona cura: 24 quadri di Caravaggio – di Federico Russo
Lascio Stefania davanti alla Galleria Borghese. Il tassista ha un aspetto stranissimo, occhiali a specchio, orecchini sul naso, sulle orecchie, sulle sopracciglia, e catene e tatuaggi ovunque.
Io e Stefania ci eravamo scambiati un cenno di inquietudine, salendo. Invece il suo taxi è profumato, musica di ambiente e temperatura ottimale.
Stefania scende, ci salutiamo. Abbiamo appena concluso una delle tante attività che fanno seguito alla convenzione tra Galleria e ASL Roma 1. Alla firma di Francesca Cappelletti, direttrice della Borghese e di Giuseppe Quintavalle, direttore generale della ASL che, bisogna pur riconoscerlo, ci hanno messo la faccia e parecchie responsabilità.
Tra le più straordinarie opere d’arte della scultura e della pittura italiana utilizzate per riattivare processi mentali sopiti, emozioni spente o sregolate, relazioni fredde, distanti, e il più drammatico dei sintomi di malattia psichica: l’isolamento.
Partecipano pazienti esperti che da anni raccontano le opere con il loro sguardo, mischiano le loro esperienze a quelle degli artisti e degli spettatori.
Stefania attraversa, nel caldo torrido delle sei di pomeriggio, il tassista riprende la sua corsa. La guardo di spalle e penso con gratitudine a quanta passione ci ha regalato in questi 25 anni che la conosco affiancando i percorsi di cura di centinaia di pazienti psichiatrici. Persone seguite in tanti Centri di Salute Mentale pubblici, con attenzione e dedizione. Anche questo, tra tante critiche e lamentele, va riconosciuto.
Resto solo sul sedile di dietro, c’è traffico.
Ho un senso di stordimento.
24 quadri mi ronzano in testa, 24 quadri di un pittore vissuto in un tempo lontano. Eppure i volti parlano ancora e raccontano la strada, la povera gente, le vittime e i carnefici, la vertigine tra la vita e la morte. Ascolto Stefania, di cognome Vannini, storica d’arte della Galleria Borghese, la sento sussurrare, per non disturbare gli altri visitatori, lei e il nostro gruppo vicino vicino, con le orecchie uno accanto all’altro, stretta tra persone con le stesse facce che stanno dipinte sui quadri, vite vissute, patimenti e sofferenze, legami malati interrotti con la violenza della psicosi.
Questo pittore, Stefania ci racconta, è passato alla storia tra pregiudizi e stigma, descritto come un collerico, un ateo tra i preti, un peccatore che dipinge il sacro. Hanno detto di tutto su di lui e forse hanno detto tante fesserie.
Dall’altra parte ci sono i nostri pazienti, i loro difficili percorsi di vita. E pure su di loro quante cose da ripensare, rinarrare.
Mi chiedo, quale sia il senso di questo tempo che trascorro oggi, di questa cura che non toglie sintomi, non dà sostegno, non svela significati. Cosa ci faccio qui con loro, con la ASL che rappresento, tra le luci fioche e tragiche che esaltano i soggetti, i neri drammatici di queste tele qui riunite in un evento straordinario a Palazzo Barberini.
Questo pomeriggio fa bene?
A me regala un tempo sospeso, nel torrido inizio di estate.
Sara Ceccucci è una tecnica della riabilitazione psichiatrica. Ha tanta esperienza sulle spalle ma il suo sguardo resta leggero, giovane, il suo sorriso contagia. Lei, tra quattro uomini carovaggeschi, segnati, poetici nei loro commenti, colti come non ti aspetteresti mai. Lei, in missione per la città, partita dalle periferie del Nuovo Salario, con le sue responsabilità, che a pensarle, a pochi centimetri dall’olio e dalla tela, vengono le vertigini. Le mettiamo in mano un patrimonio, da una parte un quadro di valore inestimabile, dall’altra la cura degli ultimi degli ultimi. Questo sono i pazienti psichiatrici. Ancora oggi è così.
La Cattura di Cristo e’ a dieci centimetri da uno dei nostri pazienti, un paziente grave, con alle spalle ricoveri, urla, paura. Sara dolcissima accanto, tra lui e Gesù, sembra non pensarci, sembra vedere tutto in un’altra luce: ce la faranno entrambi, alla faccia di Giuda e della psichiatria che non crede che in tutti, anche nelle persone più gravi, passa sempre una luce tra le crepe, così almeno cantava Leonard Cohen.
Un giovane alto alto ci racconta che ha ripreso a studiare, sta bene, seppur silenzioso e in disparte rispetto al mondo.
È arrivato a questo gruppo perché dipingeva, seguito da uno dei nostri centri. Ora ha concluso le cure, non ha più nessuno che lo segue. Ci siamo chiesti con Lucia Simonelli, la responsabile di questo progetto come di altri altrettanto speciali che coordina per il Dipartimento di Salute Mentale: ma ci può continuare a venire a fare questa attività? In fondo non è più un paziente psichiatrico. A rigor di logica dovremmo dire di no, ma poi lo continuiamo a chiamare, quando c’è qualcosa di veramente speciale come oggi. Magari gli serve, o fa piacere a noi vederlo. Ogni tanto qualcuno che ce la fa, bisogna ricordarcelo.
All’ultima sala della mostra la custode mi dice che stiamo per uscire.
Avverto il gruppo che torno dieci minuti indietro, a rivedere qualcosa. Voglio mettermi bene in testa quei volti, le grida dei giustiziati, le ombre degli assassini.
Anche separarsi non è proprio facile. Sarebbe bello restare qui anche stasera, mangiare tra questi quadri, raccontandoci di noi.
Fuori faccio la domanda di rito: allora? Impressioni?
Quello alto alto fa: buono!
E Stefania: ma come buono! Buono si dice della amatriciana!
Io rido e convengo.
Ora sono arrivato, pago, il tassista mi saluta con una gentilezza preziosa. Alla faccia dei pregiudizi.
Scendo e ci ripenso.
Che ha detto quello alto alto?
Buono.
Ci sta.
Ma chi lo avrebbe mai detto dopo 24 quadri di Caravaggio.
Non perdere l’occasione di scoprire di più su Cultura è Salute e il suo impatto nel mondo della formazione sanitaria.
Leggi l’intervista completa nella prossima edizione di La Voce dei Medici.