Storie

“Bimbe rare,
rarissime anzi uniche”.
Intervista a GIORGIO PINI, neuropsichiatra

14 Gennaio 2021

Giorgio Pini, neuropsichiatra infantile ed autore del libro “Bimbe rare, rarissime, anzi uniche”, propone la propria testimonianza di medico e studioso della sindrome di Rett, che colpisce quasi esclusivamente le femmine, come atto d’amore verso le sue piccole pazienti e le loro famiglie, per scardinare gli stereotipi e ridurre i pregiudizi.

Da dove è nata l’esigenza di scrivere “Bimbe rare, rarissime, anzi uniche” e che tematiche affronta? Si rivolge ad una platea di colleghi o anche alle famiglie che convivono con la malattia?

Foglietti sparsi trovati in una vecchia scatola di appunti di un lontano parente, mi permettono di riportare alla luce storie di bambine colpite da disturbi neurologi e psichiatrici, spesso causati da alterazioni genetiche. Tra gli scritti ce ne sono alcuni che descrivono il percorso travagliato di un medico specialista che, per arrivare all’anima delle sue pazienti e per conoscerne il contorno sociale e familiare, deve superare una selva di impedimenti burocratici, amministrativi, economici, pervasi a volte da gelosie ed acide invidie. Ne viene fuori un mosaico al confine tra il saggio e il romanzo, adatto ai colleghi, a specialisti, educatori e famiglie. Le bambine, disabili e private del diritto di parola, rappresentano nel libro, come nella vita, gli ultimi tra gli ultimi.

Lei definisce queste bambine “rare” ma allo stesso tempo “uniche”: cosa le hanno insegnato le sue piccole pazienti?

Le malattie rare hanno in comune il peso di una diagnosi difficile e di pregiudizi che avvolgono le piccole pazienti. Avere una malattia rara, dal nome difficile ed insolito, condiziona chi, di fronte a un problema banale, sia pure un mal di gola o di pancia, si allarma e rifiuta di praticare qualsiasi intervento perché “in queste condizioni ci vuole lo specialista”. E invece basterebbe ascoltare con calma i genitori che abitualmente di quella malattia rara ne sanno più dei dottori. Disturbi comuni hanno bisogno di strumenti terapeutici usuali, ma di estrema delicatezza. Sono dette “bambine rare” perché la loro malattia interessa un caso ogni mille o duemila nati; talvolta la malattia è rarissima e nella letteratura ne trovi solo tre o quattro descrizioni al mondo. Si calcola che siano oltre 6000 le malattie rare conosciute. Spesso sono così complicate che non basta un medico a curarle, ma tutto un gruppo di lavoro che deve considerare i diversi aspetti della malattia. Hanno in comune la fragilità e per questo è necessaria cautela e estrema gentilezza nel trattarle. In ogni malattia rara genetica ci sono tratti comuni, sintomi, comportamenti che le rendono molto simili l’una all’altra. Alla base di queste condizioni c’è l’anomalia di un gene, a volte solo di una piccolissima porzione dello stesso, intendo dire di una molecola o di un solo amino acido. Basta questo a renderle tutte uguali? No certamente: la causa è un’alterazione microscopica di un gene o un cromosoma, ma accanto esistono altre migliaia di geni sani che impongono i loro caratteri (l’altezza, lo sguardo, il sorriso, il colore degli occhi, della cute e dei capelli). Su quel seme, su quell’assetto genetico si genera una bambina, una persona singola per la sua storia, il suo ambiente, la sua cura. Ogni bambina ha la sua forma fisica e psichica forgiata nel tempo dalle sue specifiche esperienze, che la rendono una persona speciale e in quanto tale unica e irripetibile.

Al di là dell’aspetto puramente scientifico, che tipo di implicazioni hanno le malattie neurodegenerative infantili a livello di relazioni umane e nella società?

Ho visto bambine e bambini con gravi compromissioni motorie e cognitive che nei più generano sentimenti di estraneità o di pietà. Il danno, i dismorfismi, a volte l’aspetto, sembrano avere il sopravvento su tante altre caratteristiche che le accompagnano come la bellezza, lo sguardo, la fragilità, la dolcezza. Le malattie rare, per definizione, colpiscono una netta minoranza delle persone, specie bambini; pertanto spesso pensiamo che per quanto grave la disabilità non ci riguarda e non ci riguarderà mai. Invece no, purtroppo ci sono malattie genetiche che danno segni di sé soltanto in età avanzata, così come le malattie degenerative; penso per esempio al Parkinson o all’ Alzheimer che hanno avuto un’impennata correlata all’incremento delle aspettative della nostra vita e sono sempre in agguato. Queste bambine aprono la strada a metodi di cura fino ad ora inimmaginabili che possono rivelarsi efficaci anche per altre malattie più comuni, come ad esempio i disturbi dello spettro autistico che interessano più di una persona ogni 100. In una società civile e solidale, le malattie di pochi devono interessare tutti, anzi potremmo dire che la disabilità conseguente, un giorno potrebbe capitare a ciascuno di noi, giovane o meno.

L’attuale pandemia ha rallentato il suo lavoro? 

Personalmente mi ha consentito di rallentare i ritmi e di riflettere sul mio lavoro e forse anche di pianificare strategie di valore sociale. L’isolamento forzato ha pesato di più sulle persone fragili, sugli anziani, ma soprattutto su bambini e disabili. In questo senso la crisi potrebbe essere l’occasione per ripensare ai nostri strumenti terapeutici e per ricercare interventi di tipo individuale o in piccoli gruppi. Il primo picco dell’epidemia ha determinato la negazione del diritto educativo dei ragazzi. Tutti si sono accorti che sono state lasciate aperte diverse attività economiche e di svago, ma sostanzialmente sono state interrotte e vietate tutte le attività educative dell’infanzia e l’adolescenza. In generale le associazioni si sono trovati impreparate a proporre alternative all’isolamento, né del resto le istituzioni le hanno mai sollecitate o favorite.

Lei è un “medico-scrittore”: quanto la scrittura può essere salvifica e d’aiuto contro il burnout? Crede nel connubio tra arte e benessere, che è poi alla base del network di Club Medici “Cultura è Salute”? 

La biologia, la genetica e la tecnica sono elementi imprescindibili per la prevenzione, la diagnosi e la terapia di una malattia rara, ma il trattamento della costellazione dei sintomi è riduttivo del processo di cura che vede in primo luogo l’attivazione di tutte le risorse personali della bambina e non può prescindere dall’attenzione accurata del contesto familiare e sociale in cui vive. Educare, fare conoscere, cercare di far risaltare le potenzialità della persona, che non si riferiscano solo alle funzioni corticali come intelligenza, linguaggio, memoria, attenzione o capacità di apprendimento, ma che invece attengono a sensibilità, ad aspetti comunicativi non verbali e agli affetti, è fondamentale. La sensibilità e l’umore devono essere valorizzati in qualunque progetto di cura che sia mirabilmente integrato tra tutti gli attori. La letteratura e l’arte, occupandosi di emozioni, esplorano ed esaltano sentimenti interiori. Scoprirli dentro la persona ed esplicitarli al di fuori è l’essenza della terapia.