Sanità e Territorio

La detenzione al femminile:
le donne ed il carcere
di SANDRO LIBIANCHI

4 Marzo 2021

Un approccio radicalmente differente caratterizza la detenzione femminile da quella maschile. La tipologia dei reati commessi dalle donne è espressione chiara del percorso di marginalità che spesso segna le loro vite. Approfondiamo questo tema con Sandro Libianchi, Presidente dell’Associazione “Co.N.O.S.C.I.” (Coordinamento Nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane – www.conosci.org), già dirigente medico nel complesso polipenitenziario di Rebibbia, Roma, specialista in Medicina Interna, Endocrinologia e Farmacotossicologia.

Quale condizione vivono le donne detenute? Che numeri ha il fenomeno?

Le donne detenute rappresentano una percentuale in tutto il mondo molto bassa rispetto alla popolazione maschile, circa il 5-6%, fino ad un massimo di circa il 10% in USA (World Prison Brief). In Italia siamo attorno a poco più del 4%, gran parte di queste donne sono straniere; nel nostro Paese sono presenti 8 istituti che hanno anche una sezione femminile, oltre ad una cinquantina di piccole sezioni femminili all’interno delle carceri maschili. Questa grande dispersione di sezioni sul territorio dà anche un’idea molto precisa della difficoltà di poter sviluppare progetti per le donne detenute, proprio perché sono “disperse” in tanti piccoli gruppi. Uno dei dati che voglio sottolineare, proprio per la maggiore presenza maschile negli istituti penitenziari, è che le carceri sono molto più a “misura d’uomo” piuttosto che a “misura di donna”. Il concetto stesso di detenzione è stato sempre più rivolto alle esigenze di custodia e sicurezza maschili, piuttosto che femminili. Anche gli studi condotti storicamente sulle donne sono in tal senso molto scarsi: inizialmente sono stati inizialmente quasi “monopolizzati” dal fenomeno della prostituzione; oggi sono incentrati sul versante della salute mentale e sul consumo di stupefacenti da parte delle donne. Questo dà l’idea di quanta strada si debba ancora fare per offrire un’assistenza migliore alla donna in carcere, che resta ancora una figura vulnerabile, con esigenze e di bisogni specialistici e differenti da quelli che investono la sfera maschile. Pensiamo ad esempio alla maternità: in genere la donna proviene da un’estrazione sociale bassa, è abituata a stare in casa con i figli e rappresenta il nucleo centrale di sostegno all’intera famiglia. Anche per questo delinque in maniera specifica e minore degli uomini.

A proposito di reati: quali sono i più tipici da ascrivere alle donne?

Esiste una grande differenza di tipologia di reati a carico delle donne rispetto agli uomini: l’infanticidio è un reato tipico delle donne, perché normalmente si realizza all’interno della famiglia. In questi ultimi anni comincia a prevalere anche il reato del traffico di droga: molto spesso le donne vengono utilizzate come corrieri dal Sud America fino all’Europa e questo si riflette nelle carceri con una rilevante presenza di donne sudamericane. Ci troviamo infatti di fronte a persone completamente sprovvedute, che non hanno percezione della gravità del reato commesso. Sono donne “sfruttate” nella loro ingenuità che per guadagnare una manciata di dollari rischiano anni di prigione in un altro paese, anche molto lontano dalla loro famiglia. Per quanto riguarda l’infanticidio voglio ricordare con orrore un doppio infanticidio di due bambini, uccisi dalla madre in carcere, a Roma, circa due anni fa: da una situazione di assoluta protezione si è invece scatenata una reazione delirante in questa donna, portatrice di una patologia psichiatrica che non era stata evidentemente riconosciuta appieno. Molti studi dimostrano che la donna troppo spesso è inoltre reduce da storie di pregressi abusi fisici e sessuali: la stessa detenuta, prima di delinquere, ha spesso subito a sua volta violenze di questo tipo. Per cui è prima vittima e poi carnefice. Un altro reato tipico delle donne è il furto nei supermercati: questo è un tipo di reato che rappresenta una trasposizione dei problemi familiari legati a situazioni d’indigenza economica. Si delinque per la sopravvivenza dei figli, che non vuol dire giustificare, ma inquadrare il problema in un contesto specifico.

Affrontiamo adesso proprio il tema della genitorialità in carcere: che tipo di fotografia si può scattare?

L’unico carcere interamente femminile in Italia è la casa circondariale di Rebibbia, una costruzione degli anni ’40, dunque di concezione abbastanza antica. Ciò che la distingue dagli altri luoghi di detenzione è la presenza di un nido penitenziario, una sezione dove vengono collocate le mamme con bambini al seguito, e quindi parliamo di uno spazio attrezzato per far convivere i minori con le loro madri. Il tema della genitorialità in carcere si sente moltissimo: la legge permette che un bambino segua la madre in carcere, in quanto l’interesse primario è sempre quello del bambino. Al padre non è mai concessa questa possibilità e qui comincia la ‘latitanza’ dei padri detenuti nei confronti dei figli e della famiglia. Nel mondo sono stati calcolati tra i 7 e i 9 milioni di bambini di fatto reclusi, poiché vivono in carcere con le loro madri. Dopo l’arresto generalmente queste donne, trascorso un periodo di 7-15 giorni, vengono inviate agli arresti domiciliari o in detenzione domiciliare speciale, ai sensi della Legge del 2001 che simbolicamente fu pubblicata l’8 marzo.

Un altro aspetto cruciale è quello della violenza carceraria in ambito femminile…  

Dalla mia esperienza professionale, in rapporto agli episodi di violenza nell’ambito della carcerazione maschile, purtroppo devo evidenziare che la violenza non ha un confine, è sempre la stessa, anche in un ambito femminile. Cambiano le modalità, ma esiste allo stesso modo: quando parliamo di donne, è una violenza soprattutto verbale, ma questo non la rende meno difficile, anzi può fare anche più male. È meno episodica e più di lungo periodo, non si conclude in un atto singolo, si prolunga nel tempo. Questo fa sì che il clima di fondo sia più teso e difficile da sopportare. Poi esistono dei gruppi di donne detenute, che hanno rapporti stretti con la criminalità organizzata, le cosiddette “donne di mafia”, che sono in costante aumento, parallelamente alle azioni polizia. Sono donne che dimostrano di avere un’intelligenza superiore alla media, sono perfettamente coscienti di quello che attorno a loro, mantengono un atteggiamento di prevalenza sulle altre donne, talvolta costituiscono un vero e proprio “sportello” nei confronti delle altre detenute e appaiono forti e strutturate nella loro psiche criminale. Un altro piccolissimo gruppo, che ho avuto modo di osservare, è quello delle donne dell’Isis, italiane e straniere: sono molto rare, accusate di terrorismo internazionale e anche in questo caso si tratta di persone molto strutturate. Convinte dei loro pensieri e delle loro credenze, sono gruppi di detenute con le quali è difficilissimo relazionarsi: anche solo per intrattenere un colloquio, si segue una procedura molto rigida, che prevede la presenza di donne medico, infermiere donne, quindi con una presenza femminile che esclude qualsiasi tipo di presenza maschile. Sono casi particolari, ma al contempo preziosi, per comprendere meglio le dinamiche psichiche e sociali di queste persone.

Anche la tossicodipendenza è uno dei temi che ricorre più spesso nell’ambito della psicopatologia della donna in detenzione: cosa ha potuto osservare dalla sua esperienza professionale?

In carcere alla base di una psicopatologia, specialmente tra le donne, c’è sempre il pregresso uso di sostanze stupefacenti e/o alcol. Una donna che dunque è affetta da una dipendenza patologica, rappresenta una grande sfida per la cura e la riabilitazione perché molto spesso viene ad innescarsi un problema anche di tipo psichiatrico. Proprio questo tipo di problemi può essere una delle radici della dipendenza. Il consumo inappropriato di alcol che rappresenta una vera e propria droga è facile da riscontrare in quanto esso si reperisce facilmente non avendo limitazioni nell’acquisto; lo stesso vale quando la dipendenza è da farmaci normalmente in uso e di facile acquisto diretto in farmacia, come gli ansiolitici. Queste donne in carcere sono persone molto fragili e vulnerabili, soprattutto all’inizio, quando si affronta con loro il periodo della sindrome di astinenza. Hanno delle reazioni di grande rifiuto e disagio profondo, per cui sono preda di agitazione, anche incontrollabile, e rappresentano una grossa sfida per il terapeuta. Quando possono essere mandate in misura alternativa, notiamo che la ricaduta nell’uso è frequentissima.

Parlava di “sfide” per i terapeuti. Ma cosa vuol dire per una professionista donna lavorare in carcere?

Quello dell’istituto penitenziario non è un ambito professionale desiderato o ambito per la maggioranza delle professioni. La donna professionista medico o infermiere, magari penalizzata sul lavoro all’esterno, proprio per questa carenza riesce più frequentemente ad assumere incarichi in questo contesto e ciò determina che le donne dell’ambito sanitario sono molto rappresentate nelle carceri. Questo, dal mio punto di vista è un bene: riequilibrare il numero di donne lavoratrici significa maggiore sensibilità sia nell’accoglienza sia nella terapia. Svolgono un lavoro secondo me molto apprezzabile perché la donna professionista raramente si mette in competizione. L’uomo tende a competere e questo può generare conflitti a differenza della professionista donna che più facilmente risulta ‘vicina’ ai problemi delle persone in difficoltà o detenute. A questo proposito vorrei accennare ad un argomento che mi affascina quale la visione che si ha dall’esterno della realtà carceraria femminile attraverso la fotografia. Mi hanno sempre molto colpito le raccolte di immagini, che ritraevano le donne-detenute. Ho notato che quasi nella maggioranza dei casi sono fotografi uomini, che immortalavano detenute e nei loro ritratti volevano quasi “concedere” a queste donne una sorta di attenuante, con delle immagini di una grande tristezza di fondo. Le donne vengono spesso ritratte con un sorriso spento, con tatuaggi importanti sulla pelle, trascuratissime: sono spesso foto in bianco e nero, che esprimono con forza il senso dell’isolamento e del poco “colore” degli ambienti.