Sanità e Territorio

Droga e carcere, il tunnel degli invisibili
Intervista a SANDRO LIBIANCHI

Dal percorso terapeutico negli istituti penitenziari al trattamento del tossicodipendente come “malato” fino alle possibili soluzioni per arginare un fenomeno, quello della droga, che negli ultimi anni è aumentato in modo allarmante nel nostro Paese. Intervistiamo Sandro Libianchi, Presidente dell’Associazione “Co.N.O.S.C.I.” (Coordinamento Nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane – www.conosci.org), già dirigente medico nel complesso polipenitenziario di Rebibbia, Roma, specialista in Medicina Interna, Endocrinologia e Patologie da Dipendenza (S.P.A.)

La presenza di persone tossicodipendenti in quanto “malati” pone l’interrogativo della motivazione della loro presenza in carcere. Non dovrebbe essere automatica la loro uscita e l’affidamento a strutture terapeutiche? 

Non tutti i consumatori di droga, che commettono un reato, entrano direttamente in carcere. Per alcuni di loro scattano infatti le cosiddette “misure alternative” come l’arresto domiciliare; altri vanno in comunità terapeutica; una parte di loro entra invece in carcere. Le cose cambiano da un punto di vista sia organizzativo che strutturale: in carcere l’individuo è sotto la tutela dello Stato e perde quindi molti dei suoi diritti ordinari, dovendo sottostare ad un regime “particolare”. Il primo passaggio dopo l’ingresso in carcere è legato ad una diagnosi precisa, che porta ad un programma terapeutico, il quale segue un iter farraginoso e lungo. Poi dobbiamo tenere presente che l’iter prevede anche l’approvazione da parte della Asl, che deve riconoscere l’idoneità del programma terapeutico e sostenerlo economicamente. L’equipe multidisciplinare del carcere valuta questa documentazione e studia il percorso del detenuto durante la carcerazione e programma il dopo; dà quindi il suo parere che va direttamente al magistrato di sorveglianza che decide in Camera di Consiglio, coadiuvato da esperti di settore ed un secondo magistrato, se ricorrono gli estremi per approvare o meno il programma. Questo percorso richiede tempo, include tanti passaggi, e questo purtroppo si traduce in tempo di detenzione per la persona. Il “malato”, che così viene definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dalla medicina attuale, deve dunque aspettare, permanendo in una situazione anomala.

Ma di che numeri stiamo parlando? 

Nel panorama italiano il totale degli ingressi in carcere come tossicodipendenti, dal 2014 al 2019, è passato dal 27,5% al 36,5% sul totale: il trend è quindi in aumento. I fattori che concorrono ad aumentare le cifre sono molti: il più importante è la severità della normativa repressiva del fenomeno della droga. La media europea dei detenuti tossicodipendenti in carcere è attorno al 20%, dunque ci riferiamo a cifre inferiori delle nostre, ma anche qui c’è una grande difficoltà a livello europeo nel distinguere tra una violazione di legge per spaccio e il possesso di droga perché c’è una diagnosi di malattia da dipendenza (artt. 73 e 74 del DPR 3039/90 e s.m.i.). L’uno spaccia, l’altro consuma: chi è il malato e chi lo spacciatore? Per questo le differenze tra un paese e l’altro sono anche rilevanti. Se non si arriva ad un accordo su come distinguere le due categorie, sarà sempre difficile quantizzare con precisione il fenomeno e se andiamo a leggere l’annuale “Relazione nazionale al Parlamento sulle tossicodipendenze in Italia” è possibile vedere come negli anni la definizione di tossicodipendente sia mutata nel tempo. Oggi la dizione che si usa sul Rapporto è “Detenuti con problemi droga-correlati, che comprendono anche detenuti con una diagnosi di dipendenza”. Ciò dimostra ancora una volta la difficoltà e l’incertezza nel distinguere un malato da uno spacciatore. E questo potrebbe fare la differenza e ciò testimonia che il sistema di ‘captazione’ del malato e quello diagnostico delle persone detenute, sono gestite ancora in maniera molto artigianale, tanto è vero che il sistema distingue con difficoltà chi ha un problema vero da una malattia vera. Non esiste un sistema standardizzato nazionale di rilevazione sistematica di questo fenomeno. Anche noi dell’Associazione Co.N.O.S.C.I. per molti anni abbiamo contribuito alla stesura di diversi capitoli della Relazione. Tornando alle presenze in carcere, i detenuti con una reale diagnosi di tossicodipendenza (2019) erano circa 17.000 (96% uomini), ma solo 4.200 hanno potuto essere affidati a misure alternative come la comunità terapeutica o i lavori di pubblica utilità (LPU). Come percentuali di presenze in carcere da Nord a Sud è interessante notare come ci siano alcune regioni come la Liguria, anche in modo inaspettato, che fa da “capofila” con percentuali fino al 50% assieme al Molise, a fronte di altre regioni come la Val d’Aosta e la Calabria in cui le percentuali sono le più basse di tutti (4-10%). Spiegare il perché è molto complesso: un fattore che condiziona l’entrata è la disponibilità locale di sostanze stupefacenti, l’efficienza delle forze di polizia, dei tribunali, dei servizi di cura: tutti questi fattori determinano il numero delle persone che entra in carcere. Sono percentuali che dipendono anche dall’incidenza degli altri reati. Inoltre dobbiamo tenere conto, a livello di fasce d’età, che i minorenni risentono molto di comportamenti di violenza espressa che inducono reati, qualora ci sia un consumo di alcol o sostanze stupefacenti. Con l’alcol prevale il problema della violenza indotta e questo lo vediamo ad esempio nei telegiornali, quando assistiamo a frequenti risse tra giovani e volano decine di bottiglie. Dal punto di vista legale infatti, alcol e droghe sono due categorie totalmente diverse, anche se analoghe dal punto di vista clinico e comportamentale. Il dipendente/consumatore di alcol ed il dipendente/consumatore di sostanze stupefacenti agli occhi del curante hanno entrambi comunque un comportamento da eliminare. Nell’ambito del circuito minorile, anche se le cifre sono grandemente più basse, non sono noti i criteri diagnostici del soggetto ‘tossicodipendente’.

In carcere si riesce a realizzare qualche forma di trattamento? 

È un aspetto molto interessante: in carcere persone con problematiche droghe-correlate hanno cominciato ad essere presenti dai lontani anni settanta dunque la storia è molto antica. Nei decenni c’è stata una enorme variazione di trattamento ed è sempre stata secondaria a variazioni di normative (sia quella penitenziaria, sia quella nazionale, sia lo stesso piano di trattamento interno). Infatti, se negli anni ‘70-‘80 il metadone era bandito dalle carceri e nessuno ne autorizzava l’impiego, negli anni successivi si è assistito ad una graduale legittimazione di questo farmaco con un profondo cambiamento: le terapie anti astinenza sono divenute adeguate, passando da quelle a base di aspirina ed antidolorifici, cocktail micidiali per queste persone, alle attuali terapie sostitutive con metadone. Adesso le terapie sono molto più mirate e precise; lo stesso metadone viene dato quando necessario, sotto prescrizione medica e questi piani terapeutici oggi sono rispettati. Le carceri si sono dotate di scarsi, ma presenti, servizi di assistenza psicologica e di trattamento sociale finalizzando la loro azione verso un progetto all’esterno. Queste sono figure professionali presenti ed attive nelle strutture penitenziarie, ma sovraccaricate di lavoro per la generalizzata mancanza di personale. In più va ricordato che manca un accettabile turnover degli operatori che oggi sono ormai con età avanzate e i giovani spesso hanno contratti temporanei e precari. Queste carenze si riflettono direttamente sulla quantità e qualità dei progetti terapeutici che possono essere approntati da questo personale prevedono il saper creare un percorso che inizi dentro al carcere e porti fuori dalla struttura, con l’obiettivo che induca un miglioramento tale da abbattere il grave fenomeno della recidiva. Quest’ultima infatti incide fortemente sulla reincarcerazione ed è paragonabile ad una malattia neoplastica che si ripresenta: è una sorta di “sliding doors”, dove le persone entrano ed escono dal carcere continuamente poiché le ricadute sono frequentissime. Ci vuole quindi un progetto terapeutico e di vita che non porti queste persone a commettere altri reati, che sia in grado di riabilitarle. Da questo punto di vista il lavoro gioca un ruolo determinante: in Italia i lavori di pubblica utilità possono rappresentare proprio una forma di riscatto sociale e personale. Queste persone che vanno in affidamento in genere sono giovani ed in età produttiva ed il fatto di perdere questa massa di potenziali lavoratori è un danno di cui si parla poco e il lavoro interno alle carceri avrebbe bisogno di un chiaro programma di incremento, anche con la creazione di commesse dall’esterno per le attività più diverse (assemblaggio, creazione di pannelli termici, laboratori di falegnameria e di ferramenta, ecc.). Abbiamo 50-60mila persone l’anno che entrano in carcere per non restare inattivi anche per anni e, a parte l’alienazione da inattività, la conversione di questi tempi in attività lavorative potrebbe essere realmente ‘rieducativa’, costituire un’occasione di formazione e salvifica anche per evitare ricadute. Negli Usa, ad esempio, il lavoro, seppur con regole ferree, è molto frequente nelle carceri proprio perché rappresenta la chiave di volta per un percorso di recupero ottimale. Si calcoli che almeno il 60% di queste persone, in Italia, ha tra i 30 ed i 50 anni e vorrebbe lavorare ricevendo una equa paga, ma il lavoro retribuito presuppone l’esistenza di fondi dedicati che, attualmente sono scarsissimi. Se non c’è un fondo sufficiente, viene meno questa possibilità, ed è un peccato perché queste persone restano in stanza di detenzione anche 20 ore al giorno con evidenti ricadute psichiche e la riabilitazione ne risente molto.

Quali potrebbero essere le strade per ridurre, se non eliminare, il problema? 

La strada purtroppo è quasi solo politica perché abbiamo delle leggi, alcune delle quali buone, ma non applicate, se non sporadicamente: ad esempio la Legge 45 del ‘99 prevedeva tante risorse ai servizi per le tossicodipendenze, ma è stata adottata in maniera difforme da una regione all’altra e addirittura da una ASL all’altra della stessa regione. La legge sui LEA del 2017, riconosceva la “riduzione del danno” da droga, dunque un pilastro delle strategie mondiali della lotta alle droghe, non è stata ancora finanziata e quindi non si applica. Sempre nel mancato rispetto delle leggi, abbiamo il DPR 309 del 1990, che prevede la costituzione ad ogni legislatura dell’Osservatorio nazionale per le tossicodipendenze e che ogni 3 anni lo Stato indica una conferenza nazionale sulla droga. Lo Stato dal marzo 2009 non fa più conferenze! Come si evince il problema è complesso perché le carenze sono trasversali a molte competenze e sistemi assistenziali e se fosse data più attenzione a tutti questi punti e se queste leggi fossero realmente attuate, avremmo già una risposta forte da dare anche a livello pratico. Manca un confronto. Ma una nota positiva, che ci tengo a sottolineare, sono state le dichiarazioni di pochi giorni fa della neo ministra per le Politiche Giovanili, Fabiana Dadone, che si è rivolta così ai suoi colleghi onorevoli: “Riprendiamo i l tema delle droghe. Cominciamo noi a dare il buon esempio, facendo il test antidroga”. Questo è l’atteggiamento che potrebbe rappresentare il vero punto di svolta per innescare processi virtuosi e risolutivi nel tempo. Purtroppo nessun parlamentare ha risposto all’invito.