Covid

Abortire durante la pandemia, cosa è cambiato?
Ostacoli e soluzioni al metodo farmacologico

18 Settembre 2024

Di Marianna Rillo, ufficio legale Club Medici.

In occasione della Giornata internazionale dell’aborto legale e sicuro torniamo a parlare di IVG (interruzione volontaria di gravidanza) in una prospettiva diversa, cercando di individuare le possibili vie di accesso durante il COVID-19.

La necessità di ricorrere all’aborto è aumentata negli ultimi anni, sulla scia della pandemia COVID-19, che se da una parte ha generato incertezze economiche, dall’altra ha contribuito unitamente a tante altre problematiche sociali ad aggravare condizioni già esistenti di marginalità e vulnerabilità, senza parlare dell’aumento delle violenze domestiche, delle condizioni precarie di salute o di positività al COVID-19. Purtroppo i report in materia difettano. È stato registrato un notevole ritardo circa la trasmissione delle Relazioni al Parlamento sull’applicazione della legge n.194. Basta considerare che solo il 30 luglio 2021 il Parlamento è venuto a conoscenza dei dati definitivi del 2019.
In totale nel 2019 sono state notificate 73.207 IVG, confermando il continuo andamento in diminuzione del fenomeno (-4,1% rispetto al 2018), ma c’è chi considera queste statistiche incomplete e fuorvianti come nel caso di Jacopo Coghe[1], il quale parla addirittura di dati falsati, copiati e incollati dalla relazione del 2018. Altri invece li ritengono non attendibili dal momento in cui non tengono conto dei casi di aborto clandestino. Sì, perché anche se c’è una normativa che dal 1978 consente alle donne di scegliere se essere o meno madri, e di farlo in sicurezza senza ricorrere a sostanze o pratiche abortive clandestine, è anche vero che i limiti al ricorso all’IVG sono ancora tanti e di diversa natura, per cui molte donne oggi sono costrette a ricorrere a procedure che spesso mettono a rischio la loro salute.
Siamo nel 2021 e manca ancora la relazione definitiva del 2020 quindi non è possibile operare una statistica certa, sappiamo però che la pandemia ha contribuito a incrementare la necessità di interrompere la gravidanza e allo stesso tempo, però, ha reso difficile usufruire del servizio. Perché oltre al problema dell’obiezione di coscienza, che da sempre limita il ricorso all’IVG, in questo particolare momento storico sono venuti a crearsi ulteriori ostacoli, relativi alla mancanza di posti letto in ospedale, oltre che di contenimento del virus.

Il Governo italiano infatti in un primo momento non aveva considerato l’aborto come un servizio sanitario essenziale, perché si riteneva che la necessità di molteplici visite o ricoveri fossero un rischio troppo grande per la salute della donna, così come per quella degli operatori, oltre che gravoso per le strutture che in quel momento erano già sotto sforzo.
Così nel pieno della crisi abbiamo assistito alla chiusura di molti reparti di IVG per lasciare i letti ai contagiati dal virus e i pochi anestesisti non obiettori sono stati destinati alle terapie intensive, ciò a voler dimostrare, ancora una volta, quanto sia minacciata la sopravvivenza del diritto all’aborto sicuro.
La crisi “Coronavirus” collocata nella crisi “194” [2] ha dunque aggravato le difficoltà di abortire nei tempi e con le modalità previste dalla legge. E la situazione è resa ancora più esasperante se a questa difficoltà se ne aggiunge un’altra: non poter ricorrere, in emergenza, alla pratica dell’aborto farmacologico (con il farmaco RU 486) perché, secondo la legge n.194, questo prevede un ricovero di tre giorni, e ciò andava in contrasto con le raccomandazioni di salute pubblica volte a minimizzare le visite e i ricoveri in ospedale. Per cui fondamentale era la possibilità di rendere ambulatoriale l’aborto farmacologico, di modo da decongestionare gli ospedali, evitare rischi di contagio, garantire comunque il servizio come previsto dalla legge, senza considerare che questa soluzione avrebbe consentito di ridurre anche l’impatto dell’obiezione di coscienza.

Sul ricorso all’aborto farmacologico, l’avvocato Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni, prima del diffondersi del virus, ha commissionato una ricerca all’istituto SWG[3], i cui risultati hanno dimostrato che un italiano su tre riteneva necessario facilitare l’accesso alla IVG farmacologica eliminando la raccomandazione del regime di ricovero ordinario. Questo studio ha testimoniato come le difficoltà connesse al ricorso a questo metodo fossero avvertite chiare anche prima della crisi, la quale non ha fatto altro che metterle ulteriormente in risalto.

Hillary Margolis, ricercatrice esperta sui diritti delle donne a Human Rights Watch ha sostenuto che la pandemia COVID-19 ha fatto luce su ciò che le donne in Italia hanno sempre saputo. La legge dovrebbe permettere di abortire in modo sicuro e legale, ma la realtà è ben diversa secondo Margolis, perché si incontrano ostacoli ad ogni passo, e ciò dovrebbe servire da campanello d’allarme per comprendere che, crisi o meno, la protezione dei diritti riproduttivi non è opzionale.
Le circostanze e la disperazione potrebbero portare molte donne a fare scelte pericolose per la loro salute e questo deve essere assolutamente scongiurato.

Nel periodo della pandemia, come ci fanno notate gli autori di “Abortion regulation in Europe in the era of COVID-19: a spectrum of policy responses”, le politiche adottate dai singoli Stati per le interruzioni di gravidanza sono state molto diversificate.
Le autorità italiane in un primo momento non hanno adottato misure per facilitare l’accesso all’aborto farmacologico, diversamente da numerosi Governi europei, tra cui Francia, Inghilterra, Galles, Scozia, Irlanda, Spagna, Germania, nonostante l’efficacia del metodo che consente di interrompere la gravidanza attraverso l’assunzione di medicinali anziché metodi chirurgici più invasivi.
I principali ostacoli dell’aborto farmacologico, che hanno portato alla sua sospensione durante l’insorgenza della crisi, erano rintracciati:

  • nelle tempistiche: visto il limite legale di 7 settimane per potervi ricorrere
    (quando alcune donne potrebbero non sapere di essere incinte, e quindi, decorso questo termine, si vedrebbero negata la possibilità di abortire con una modalità meno invasiva, quale appunto quella farmacologica)
  • nella necessità di molteplici appuntamenti, nello specifico tre: visita preliminare ed ecografia, somministrazione dei farmaci e successivo controllo
    (il ricovero ospedaliero di tre giorni, è giustificato dalla necessità di scongiurare casi di morte per emorragia, anche se l’OMS dal canto suo non ha riscontrato aumenti del rischio nel caso di gestione domiciliare dell’aborto farmacologico, anzi ha più volte ribadito come questa ipotesi sia una soluzione per combattere le problematiche associate ad un aborto non sicuro)

A questo punto è doveroso osservare che la negazione dell’accesso all’aborto può equivalere a violazioni dei diritti alla salute, alla privacy e alla libertà.

Sul punto:

  • L’Italia ha l’obbligo di garantire il diritto al più alto standard di salute, compresa la salute sessuale e riproduttiva, in base ai trattati internazionali di cui è parte, tra cui la CIDESC[4], la CEDAW[5] e la Carta sociale europea.
  • Il Comitato Onu per i diritti umani[6] che monitora il rispetto della CIDESC, ha fatto notare[7] che l’accesso delle donne alla salute sessuale e riproduttiva completa è essenziale per la piena realizzazione di tutti i loro diritti umani, per cui gli stati dovrebbero rimuovere tutte le barriere.
  • Il Comitato che supervisiona l’attuazione della CEDAW dal canto suo ha sollevato importanti preoccupazioni relative alle persistenti barriere all’aborto in Italia, e ha detto che il governo dovrebbe assicurare l’accesso all’aborto su tutto il territorio nazionale.
  • Organismi dell’Onu hanno fatto notare che periodi di attesa obbligatori costituiscono degli ostacoli all’aborto e hanno chiesto che vengano aboliti.
  • Infine il Consiglio d’Europa ha detto che tutti gli Stati membri devono assicurare un pieno accesso alla salute riproduttiva, compreso l’aborto, nei loro piani di risposta alla pandemia COVID-19, e ha chiesto agli stati membri di “rimuovere con urgenza tutti gli ostacoli residuali che impediscono un accesso all’aborto”.

Tutto ciò ha portato a manifestazioni, come quella del 2 luglio 2020 in cui le attiviste pro-choice[8] hanno manifestato[9] di fronte al Ministero della Salute richiedendo maggiore accesso all’aborto farmacologico e contraccezione gratuita. Sono poi seguiti interventi vari da parte di numerosi gruppi non-governativi come LAIGA, Pro-Choice/RICA, AMICA[10], e l’Associazione Luca Coscioni, i quali hanno chiesto con urgenza alla Presidenza del Consiglio e al Ministero della sanità

  • di allargare la finestra temporale entro la quale ricorrere al metodo farmacologico
  • di eliminare il ricovero di tre giorni
  • di introdurre, come avviene già in molti altri paesi europei, il ricorso all’uso della telemedicina per consentire l’accesso remoto a questo tipo di aborto durante la pandemia.

Si è giunti così, il 12 agosto 2020, all’emanazione da parte del Ministero della Salute, della circolare di aggiornamento delle Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine[11].
Le nuove Linee di indirizzo hanno aggiornato quelle del 24 giugno 2010 e sono passate al vaglio del Consiglio Superiore di Sanità (CSS) che il 4 agosto 2021 ha espresso parere favorevole al ricorso all’IVG con metodo farmacologico in day hospital, autorizzando la somministrazione al di fuori degli ospedali[12]– eliminando così l’obbligo di ricovero ordinario – ed estendendo il limite per la somministrazione del farmaco da 7 a 9 settimane. Un importante passo avanti, nel pieno rispetto della legge n.194 che da quando è entrata in vigore, nel 1978, ha riconosciuto alla donna il diritto di poter ricorrere alla IVG solo in una struttura pubblica.
Successivamente al parere del CSS l’Agenzia Italiana del Farmaco ha emanato la Determina n. 865 Modifica delle modalità di impiego del Medicinale Mifegyne a base di mifepristone (RU486).

A un anno dalla pubblicazione delle nuove Linee di indirizzo sull’aborto farmacologico da parte del Ministero della Salute, solo Toscana, Lazio, Emilia-Romagna e Umbria hanno recepito formalmente le indicazioni ministeriali.
In Italia il cammino dell’aborto farmacologico procede lentamente, la fatica con cui si fa strada il ricorso a questo tipo di procedura è peraltro solo uno degli aspetti in cui si manifesta l’arretratezza dei servizi sanitari italiani in materia di IVG. Infatti il Ministero non ha incluso la telemedicina per l’aborto farmacologico nelle Linee di indirizzo promulgate ad agosto 2020, contrariamente a quanto richiesto dalla Sigo[13] durante la fase più critica dell’emergenza pandemica.
Questo a dimostrazione di quanto l’Italia fatichi a stare al passo con i tempi rispetto tanti altri paesi, come ad esempio l’Inghilterra dove le misure introdotte in pandemia, quali appunto la telemedicina per consentire l’aborto fino a 9 settimane, sono state rese permanenti. Sempre l’Inghilterra poi ha avviato, a luglio 2021, un gruppo di lavoro interdisciplinare per discutere di come la telemedicina possa favorire l’accesso all’aborto e lo ha fatto appellandosi ad uno studio su oltre 50.000 aborti prima e dopo queste misure, che ha consentito di concludere che l’aborto telemedico è efficace, sicuro, accettabile e che favorisce l’accesso alle cure.
Le Indicazioni nazionali per l’erogazione di prestazioni in telemedicina, pubblicate dal Ministero il 27 ottobre 2020 e recepite il 17 dicembre 2020 dalla conferenza Stato-Regioni, sollecitano ad attivare strumenti di sanità digitale in quanto rappresentano un’opportunità unica per un servizio sanitario che tiene conto delle necessità individuali, in linea con le indicazioni dell’OMS che attribuisce alla telemedicina un ruolo fondamentale per raggiungere le priorità di salute pubblica.

L’aborto farmacologico in day hospital è una potente arma contro il sovraffollamento degli ospedali e l’obiezione di coscienza. Ma alle donne che richiedono questo metodo, oggi reso possibile ambulatorialmente, deve essere data la possibilità di gestire la procedura in autonomia pur sempre con l’assistenza necessaria e costante del medico, che da remoto monitora con lei il decorso del trattamento.


[1] Vicepresidente di Pro Vita & Famiglia
[2] Legge n.194 del 1978, ovvero la legge sull’aborto
[3] Fondata a Trieste nel 1981, SWG progetta e realizza ricerche di mercato, di opinione, istituzionali, studi di settore e osservatori, analizzando e integrando i trend e le dinamiche del mercato, della politica e della società
[4] Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali
[5] Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna
[6] United Nation Human Rights Treaty Bodies
[7] General comment (2016) on the right to sexual and reproductive health (article 12 of the International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights)
[8] Pro-choice, rete italiana contraccezione aborto che difende il diritto alla scelta, all’aborto sicuro e alla salute riproduttiva. Agisce per rimuovere gli ostacoli che ancora oggi vi sono in Italia.
[9] La Repubblica, Cronaca, Donne in piazza come 40 anni
[10] L’Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto
[11] Il mifepristone è uno steroide sintetico utilizzato come farmaco per l’aborto chimico nei primi due mesi della gravidanza, siglata RU 486
[12] È consentita la somministrazione in ambulatorio o consultorio
[13] Società italiana di Ginecologia e Ostetricia