Cultura è Salute

Mi chiamano Cancro. Ti racconto una storia di rinascita
di SERENA SQUANQUERILLO

4 Ottobre 2021

Una donna colpita da un cancro al seno che trasforma la sua guerra contro la malattia in un dialogo che la porterà a comprendere la funzione che questa esperienza ha nella sua vita.

Quando incontri il tuo nemico abbraccialo perché ti sta parlando di te“.

Una frase di F. Perls che sintetizza con efficacia l’errore che spesso commettiamo nel pensare di poter allontanare ciò che ci crea sofferenza, senza considerare che a volte ci troviamo semplicemente di fronte a uno specchio nel quale possiamo ritrovare noi stessi. Questa è la sfida che affronta Serena Squanquerillo usando l’immaginazione per entrare in contatto con il suo “male”.

Sono arrivato il 14 gennaio del 2012 e ho saputo che era il suo trentaduesimo compleanno. L’ho vista mentre soffiava la candelina sulla sua torta preferita: un millefoglie alla crema e cioccolato. Divertita, con quel taglio di capelli corto e sbarazzino, si è fatta fotografare dal padre mentre la madre preparava i piatti per il dolce. Quasi fosse un regalo, ho scelto di rimandare di qualche giorno la mia presentazione ufficiale per permetterle di godere, serenamente, ancora per un po’, il suo anno di vita in più. Agenda: 19 gennaio. «Che sarà mai qualche giorno di attesa? Ah! Tanto non mi scappa». Finalmente mi sono presentato all’incontro, puntuale. Lei era dalla sua dottoressa, stesa sul lettino per i controlli ecografici periodici per verificare che andasse tutto bene, avendo subito più volte interventi chirurgici a causa della mia collega endometriosi e avendo avuto in famiglia alcuni casi di tumore al seno. Io ero proprio lì. Mi sono avvicinato all’orecchio della dottoressa e sussurrando, le ho instillato un dubbio che ovviamente avrebbe trovato fedele corrispondenza sullo schermo dell’ecografo.

«Mh, questa dottoressa è troppo prudente e scrupolosa per i miei gusti, la tira per le lunghe ma certo non mi impedirà di far conoscere la mia presenza a Serena. Daiii sono lì! Mi hai visto!» Alla ragazza è stato richiesto di fare una mammografia di approfondimento in clinica per fugare ogni dubbio. Serena è pensierosa. Ed è il minimo, vista la situazione! Bene, forse comincia a rendersi davvero conto che qualcosa non va. È preoccupata ma cerca di non mostrarlo alla madre che l’ha accompagnata. Quanta premura! Agenda: 21 gennaio – verifica mammografica. «Vediamo se questo medico radiologo mi lascerà lavorare e mi presenterà come si deve». Serena è da sola in quella stanza un po’ fredda con il mammografo, mezza nuda che cerca di mantenere la calma. Buffa! Sembra una bambina curiosa che cerca di prendere confidenza con l’ambiente circostante nel tentativo di distrarsi. «Però! Che compostezza…». Finalmente il tecnico esegue l’esame e dopo qualche minuto di attesa, il radiologo la chiama per la risposta urgente. Lei si siede difronte al dottore che la guarda negli occhi e tenta di dirle la verità nel modo più delicato possibile. «Dannati umani! Ma quanto la fate difficile? Io devo lavorare, c’è la fila. Non posso perdere tempo con le vostre burocrazie!» «Dottore, ho il cancro al seno?» chiede la ragazza tagliando corto. 2 «Oh finalmente! Beh, però questa ragazza mi sembra un po’ troppo spavalda… temo che mi darà filo da torcere, ma non mi fermerà di certo!»

Il dottore l’ha guardata con dolcezza e, confermandole la diagnosi, le ha suggerito di trovare immediatamente un chirurgo per rimuovermi anche perché, considerando la sua giovane età, avrei potuto diffondermi velocemente. «Ma quante storie… lavoro anche con i bambini!» Per pochi secondi, io e lei, ci siamo guardati dritti negli occhi. «Ciao Serena, sono Cancro e sono qui per lavorare su di te perché ne hai i requisiti». Anzi, sarebbe più corretto dire che mi chiamano “cancro”; sembra che il nome derivi dalla somiglianza che, le vene gonfiate dal tumore, hanno con le zampe del granchio. Che paragone ridicolo! All’uscita dalla clinica, la ragazza si è attivata subito per contattare il chirurgo che l’aveva già aiutata in passato, al fine di organizzare l’intervento e trovare presto un oncologo che la segua. Mentre lei gestisce queste noiose faccende per la controffensiva, io non perdo tempo e porto avanti il mio lavoro. Non intendo arrendermi così facilmente. Ho studiato bene la sua storia, raccolto dati e trovato quei punti deboli su cui fare leva per condurre il gioco. Resoconto: “Serena è una ragazza che vive con un costante senso di inadeguatezza e paura di esprimere il suo sentire e la sua creatività. Il timore è quello di non essere ritenuta all’altezza. Fin da bambina, un crescendo di situazioni ha messo a dura prova la capacità di credere in se stessa e di trovare la forza per affrontare i problemi, soprattutto quelli relativi alla salute. Amore personale pari a zero. Nonostante le cadute, le insicurezze e la paura, si è sempre risollevata con forza e coraggio”. «Mi aspettavo dunque che avrebbe lottato, ma adesso tocca a me. Con Cancro non si scherza!».

Agenda: 28 gennaio, programmazione dell’intervento chirurgico di rimozione. Ha scelto una clinica a pagamento soprattutto per sbrigarsi, così come le hanno consigliato. «Tra meno di una settimana! Ma cosa diamine è tutta questa fretta? Se sono qui ci sarà pure un motivo, no!?» Serena passa le sue giornate, in attesa dell’intervento, a lavorare insieme ai suoi colleghi in azienda. È preoccupata ma non vuole mollare la presa. Si tiene impegnata per restare attiva e distrarsi, mantenendosi a contatto con clienti, colleghi, amici e famiglia. È ben consapevole di quanto sta accadendo ma non intende in alcun modo passare le sue giornate sdraiata sul letto a deprimersi, rinunciando a vivere. La sera stessa della diagnosi ufficiale l’ho sentita tirare un profondo sospiro e dire a se stessa: «Ok, la situazione è questa: ho il cancro. Devo affrontarlo. Morirò? È una possibilità, ma non ho nessuna intenzione di arrendermi e vivrò appieno ogni attimo della mia vita nel miglior modo possibile!». Sì, mi sta sfidando ma nel frattempo io porto avanti il mio lavoro. Continuo a prendere confidenza con il suo corpo. Al momento sono localizzato in alcune cellule sulla parte super-laterale esterna del suo seno sinistro, ma la ragazza non sa quanto sono invasivo, pronto per diffondermi a mia volontà.

28 gennaio: intervento chirurgico. Serena è a Roma per farmi fuori. Ironia della sorte! Pfff. È nella sua stanza e si prepara indossando il camice con cui sfilerà in barella fino alla sala operatoria, condotta dai portantini. Durante il tragitto in corridoio non parla, è concentrata su stessa, focalizzata sul suo mondo interiore nel tentativo di rilassarsi. Sdraiata osserva le file di neon sul soffitto che scorrono davanti ai suoi occhi formando un percorso. Abitando in lei, io vedo tutto ciò attraverso i suoi occhi proprio come attraverso quelli di tanti altri umani. Giunti in sala operatoria, la sistemano sul tavolo, la rassicurano e la preparano per l’anestesia totale. Il suo chirurgo le sussurra parole di incoraggiamento per farle capire che può contare su di lui per l’ennesima volta. 3 «Siete stomachevoli! Io ho fame di cellule, lasciate che mi nutra in pace!» Gli occhi di Serena si chiudono mentre si apre un mondo di possibilità. Nonostante lei dorma, la osservo dall’interno del suo corpo e mi accorgo del bisturi che mi passa vicino, accanto al del tessuto mammario malato, e poi del prelievo istologico per l’analisi intraoperatoria. Vogliono identificarmi, classificarmi, darmi un nome, stabilire la gravità della situazione al fine di raccogliere tutte le informazioni dettagliate per determinare, infine, l’iter terapeutico, senza perdere tempo. Dopo qualche ora d’intervento, Serena viene condotta nella zona risveglio e presto raggiunta da alcuni familiari e dal suo dottore pronti a prendersi cura di lei mentre torna cosciente. Viene poi riportata nella sua stanza tra drenaggi e antidolorifici. Quella parte visibile e infiltrante di me ormai era stata rimossa dal suo corpo, ma io potevo osservare la ragazza da fuori, come presenza potenzialmente pronta a portare avanti il proprio lavoro per altre vie. Sono andato a fare un giro per il reparto a riflettere sul da farsi. Tornato in stanza, la vedo sveglia e impegnata a riflettere e… «Un attimo, ma cosa succede? Con chi sta parlando?» «Serena, chi vuoi essere? quando ti deciderai a smettere di nasconderti e a renderti visibile? Esprimi chi sei veramente! Prenditi la responsabilità di vivere secondo il tuo sentire senza preoccuparti di rispondere alle aspettative altrui. Questo timore non è altro che il frutto del tuo severo e intransigente giudizio verso di te».

Era la Vita, con il suo sorriso solare e vestita d’oro brillante che, approfittando della mia momentanea assenza dalla stanza, stava aiutando Serena a prendere coscienza dei motivi che erano alla base del suo desiderio di lottare per stare bene come mai aveva fatto in passato. Proprio accanto alla Vita, stava la Morte vestita di bianco, perfettamente in tono col suo pallido volto, che ascoltava in silenzio mentre nella sua mano teneva una clessidra i cui granelli di sabbia scendevano giù come macigni. La Vita stava incoraggiando la ragazza ad approfittare del trauma da me generatole per entrare in profondità, dentro se stessa e ascoltarsi al fine di assaporare la vita e comprendere l’importanza del prendersi cura di sé, riconoscendo il proprio valore. Voleva portarla a rendersi conto di quanto una dura esperienza come la malattia potesse essere, per contrasto, un’opportunità per giungere finalmente ad amare e rispettare il suo stare al mondo. Sarebbe stata la sua più grande conquista. «Ma questo è un affronto!» ho esclamato furente. «Non posso accettare che non appena io mi allontani un attimo, ci si approfitti per rubarmi la scena! E poi cos’è quello sguardo d’amore di Serena verso la Vita? Non ha mai guardato me in questo modo!» Ho urlato ma, non ascoltato, sono uscito velocemente dalla stanza. Ero stato usato come un cavallo di Troia affinché le venisse mostrato il suo valore, la sua dignità di essere vivente. Ho saputo che dopo tre giorni è stata dimessa. Il recupero post-operatorio è stato veloce nonostante il fastidioso drenaggio che ha dovuto portare con sé per un po’ di tempo, come un borsello con dentro una poltiglia rossa che Serena chiamava “succo d’arancia”. Una volta a casa, sono cominciate le medicazioni periodiche.

Stavo lavorando nel “Reparto di Oncologia” in un ospedale di Albano Laziale, quando l’ho vista! Serena stava parlando con il primario del reparto. «Evidentemente ha trovato l’oncologo giusto per lei al primo tentativo». Vedevo che le stava prescrivendo gli esami da fare in attesa dell’esito dell’istologico per decidere le cure. Analisi del sangue, scintigrafia ossea, ecografia al seno, ecografia epatica. Sono esami di prassi per verificare che sia tutto a posto negli organi solitamente colpiti da eventuali metastasi. Gli esiti risultarono in ordine, mancava solo quello dell’esame istologico che arrivò dopo quindici giorni: “Carcinoma mammario allo stadio 1, duttale infiltrante di 6 mm con cellule mediamente differenziate; linfonodi abbastanza puliti, metastasi a distanza non riscontrabili, basso indice di 4 proliferazione”. La parte di me rimossa era altamente recettiva per il 95% agli estrogeni e per il 70% al progesterone: stavo crescendo a suon di ormoni, seppur lentamente. Sarebbe riuscita a evitare la chemioterapia, cavandosela con 29 sedute di radioterapia e due tipi di terapie ormonali per contrastare la dose di ormoni in circolo nel suo corpo, per almeno 5 anni. Ogni tanto la osservo mentre aspetta di essere sottoposta alla seduta di radio nel reparto di oncologia, dove sono molto occupato soprattutto con i malati ricoverati e i terminali con cui ogni tanto la trovo a parlare. È la più giovane del suo turno ed è diventata la mascotte del reparto. Cerca di strappare un sorriso a chi ha paura oppure ascolta in silenzio lo sfogo di chi non ce la fa più: si sta rendendo conto che con me davvero non si scherza! Le cure che Serena sta facendo le creano vari problemi tra cui la nausea che è davvero insopportabile. Ha passato un’intera estate a bere bibite gassate, unico rimedio in grado di darle sollievo dopo aver ultimato la radioterapia in ospedale, dove erano soliti iniettarle un farmaco forte per dare pace al suo stomaco. È dimagrita molto.

Con l’arrivo dell’autunno di quello stesso anno, ho cominciato a mollare la presa e ho avuto occasione di vederla solo ogni 6 mesi, durante i periodi di controllo con l’oncologo che l’avrebbe seguita, come minimo, per i 5 anni previsti dal protocollo. «Questo caso è davvero noioso, non mi hai dato la possibilità di crescere. La Vita ti avrà incoraggiata ma di sicuro è grazie a me che ti sei decisa a lottare per sopravvivere!» Queste sono state le ultime parole che le ho urlato, andandomene. Ho saputo che successivamente ha avuto altri problemi di salute, ma ora sta bene. Comunque non è mio interesse parlarne. Almeno per il momento, il mio lavoro qui è finito e così i miei resoconti. “Caso chiuso”. Velletri, 22 novembre 2020 La pesantezza delle cure, gli effetti collaterali, l’impatto della situazione sulla mia salute fisica ed emotiva mi hanno sottoposta a un lungo periodo di stress che mi ha costretta a prendermi cura di me in modo deciso. Tuttavia, giorno dopo giorno, sono riuscita a scorgere in questa esperienza una “bellezza collaterale” ossia l’opportunità di far emergere, dal mio mondo interiore, la mia parte più autentica, guidata da ciò che mi ha sempre aiutata, nonostante le insicurezze: una profonda saggezza, fonte della mia forza e resistenza. La mia voce interiore mi ha incoraggiata, durante il periodo di cure e di esami in cui ho dovuto accettare anche delle conseguenze scomode, fino al giorno in cui il medico mi ha confermato l’avvenuta guarigione e la fine dell’iter terapeutico. Non potrò mai dimenticare il sospiro di sollievo e la grande leggerezza nel cuore provata in quel momento!

Da qualche anno sto portando avanti il mio lavoro di auto-consapevolezza alla scoperta di me stessa, attraverso un percorso spirituale che contribuisce a rafforzare il mio benessere su più livelli. Mi sto dando il permesso di vivere esperienze importanti insieme ad altri compagni di viaggio e di comprendere le mie reali necessità, eliminando dalla mia vita tutto ciò che limita e mina la fiducia nelle mie potenzialità. A un certo punto si è fatta incisiva la spinta a creare un contenitore in cui riversare il bagaglio, con i frutti della mia ricerca interiore, sotto forma di diario e nelle più svariate forme creative: riflessioni, poesie, racconti, immagini. Così a novembre del 2019, ho deciso di darmi voce aprendo un blog personale: uno strumento terapeutico per me stessa, ma anche un contributo che testimoni che esiste sicuramente il modo per superare le difficoltà o, almeno, di trovare la soluzione migliore, avendo cura di sé con pazienza, amore e fiducia. L’esperienza del cancro, e tutto ciò che è avvenuto dopo, mi hanno convinta che ci sia una forte urgenza di rallentare il ritmo di vita per tornare ad ascoltarsi, a percepire la propria interiorità affinché si riconosca la bellezza di chi si è davvero, al di là delle convenzioni e delle sovrastrutture ereditate dall’esterno.

I fatti ora mi stanno dimostrando che la condivisione di cui prima mi sono spesso privata, aiuta e incoraggia anche chi sta affrontando momenti delicati e un percorso di profonda introspezione. Il confronto avvia un processo di arricchimento reciproco, che diventa anche occasione di stringere forti amicizie, a dimostrazione che non si è soli! Finalmente io, Serena, ho realizzato che esprimere me stessa senza timore sia la più alta forma di amore e rispetto verso me stessa. Voglio ringraziare veramente di cuore le persone che mi sono state accanto durante quello che è stato uno dei periodi più difficili della mia vita. Ringrazio la Vita per aver avuto la pazienza di aspettare che io la riconoscessi e vedessi l’amore che mi stava mostrando in modo incondizionato. Ringrazio la malattia, Cancro – che certamente avrei voluto evitare! – il quale mi ha messo in condizione di cominciare a dare valore alla mia esistenza e a me stessa; mi ha insegnato a percepire il mio corpo e a rispettarlo come veicolo di vita e parte di me. È stato un incontro breve ma intenso. Non ho mai capito perché, dopo essersene andato, mi abbia voluto lasciare una lettera in cui è riportata una copia della sua agenda con note del suo lavoro con me. Una forma di premura? Oppure una provocazione pur di avere l’ultima parola?

Sono grata per l’insegnamento, ma l’ultima parola è mia: “Fine” del racconto.