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Scienza, comunicazione e fiducia nella lotta contro SARS-CoV-2

Patrizia Lavia, Barbara Illi
Ricercatrici dell’Istituto di Biologia e Patologia Molecolari
del CNR di Roma

Durante la pandemia del coronavirus SARS-CoV-2 abbiamo potuto osservare tre fenomeni. 

Il primo: mai come ora, la scienza ha conquistato la ribalta del palcoscenico.  Dopo anni in cui la scienza è rimasta nell’indifferenza di gran parte dell’opinione pubblica e dei governi che, in questo Paese, l’hanno costantemente definanziata, ci si è accorti improvvisamente che la scienza esiste, che milioni di persone lavorano in ambito scientifico nel mondo e che questa attività è rilevante per l’umanità. 

Il secondo fenomeno riguarda le modalità con cui le informazioni scientifiche sono trasmesse ai cittadini, spesso con incompletezze e/o errori. I dati scientifici richiedono tempo per essere validati e ciò si scontra con la naturale “fretta” dei giornalisti di riempire le pagine delle testate (ma anche con la necessità di fornire risposte immediate in una situazione di emergenza). La comunicazione scientifica è anch’essa un mestiere, in cui bisogna saper rendere semplice ciò che in realtà è molto complesso. Non è, soprattutto, una “caccia alla notizia”.

Il terzo aspetto riguarda il rapporto tra scienza e misure sanitarie. Spesso, ciò che sarebbe l’optimum scientifico, nel contrasto alla pandemia, si scontra con la necessità di evitare nuovi lockdown e di non frenare la ripresa economica.  Nel nostro Paese, alcuni provvedimenti hanno tentato di bilanciare la lotta al contagio e le necessità dell’economia, a fronte di un sistema sanitario debilitato e depauperato di risorse finanziarie ed umane. Alcuni sono stati percepiti come troppo restrittivi delle libertà e delle attività umane e spesso la responsabilità è stato attribuito alla scienza.

L’intreccio di questi tre elementi ha portato ad una crisi dell’idillio tra opinione pubblica e scienza. In questo articolo, cercheremo di capire perchè la fiducia dei cittadini si sia incrinata. Cercheremo di evidenziare quanto sia difficile il rapporto tra i dati scientifici prodotti da ricercatori e medici e il loro uso a supporto delle misure di politica sanitaria. È capitato che i dati siano stati percepiti e distorti non solo da una minoranza, eppure molto rumorosa, di cittadini, ma anche da personalità influenti della cultura che, in quanto tali, hanno una responsabilità nel comunicare la realtà dei fatti piuttosto che interpretazioni personali.

COSA C’È DIETRO UN RISULTATO SCIENTIFICO

“Fare scienza” richiede rigore e tempi non sempre prevedibili. Ad una prima fase di raccolta di dati, che deve essere infaticabile per raggiungere numeri significativi, seguono una quantità di esperimenti e prove per verificarne la validità e riproducibilità. Segue una fase di analisi rigorosa per valutare se i dati raccolti e la loro interpretazione siano davvero incontrovertibili e rappresentativi della situazione in studio. A questo punto, la conoscenza ottenuta viene sottoposta ad una validazione indipendente prima di essere resa pubblica. Perché risultati scientifici nuovi ed originali vedano la luce sotto forma di pubblicazione può occorrere anche un anno, durante il quale:

  • Gli autori sottopongono i risultati ad una rivista scientifica, il cui comitato editoriale fa una prima valutazione per stabilire se il materiale meriti di proseguire verso un’analisi critica approfondita;
  • in caso positivo, l’articolo è inviato a revisori anonimi esperti nel campo (di solito 3); 
  • i revisori studiano indipendentemente l’articolo; ciascuno rileva eventuali punti deboli ed invia le sue osservazioni e richieste di chiarimento alla rivista e agli autori;
  • gli autori, di solito entro tre mesi, rispondono modificando le parti ritenute critiche e spesso aggiungendo ulteriori dati a sostegno;
  • i revisori studiano nuovamente l’articolo rivisto, valutando se esso chiarisca e risolva in maniera convincente i punti ritenuti critici.

Se la revisione si conclude positivamente, il lavoro è prodotto dalla rivista ed effettivamente pubblicato. A questo punto, i dati diventano accessibili a chiunque e diventano soggetti al più implacabile dei giudici: la realtà, che confermerà o smentirà la correttezza della conoscenza acquisita.

Le pubblicazioni prodotte nel 2020 sulla biologia del SARS-CoV-2 sono il risultato di uno sforzo collettivo senza precedenti di molti laboratori, che ha prodotto conoscenze complete, esatte e durevoli, che – non dimentichiamolo – hanno permesso di salvare milioni di vite. Questo è stato possibile proprio perché ogni laboratorio ha fatto da contrappeso agli altri in quello che è stato definito un nuovo “progetto Manhattan” contro SARS-CoV-2.

Nella pandemia, l’urgenza delle risposte non è sempre compatibile con i tempi di pubblicazione ordinari. Si sono quindi sviluppati nuovi modi di rendere pubblici i dati, ad esempio piattaforme online – medxriv o bioxriv – fungono da “archivi” di risultati non ancora revisionati; inoltre riviste prestigiose – come Nature, Lancet ed altre – hanno accorciato i tempi di revisione, pur mantenendo il rigore, per garantire una sollecita pubblicazione di risultati utili. 

Eppure, scienza, comunicazione e fiducia sono i vertici di un triangolo che mostra segni di crescente cedimento. Cosa si è incrinato da quando, nel 2020, le persone uscivano sui balconi ad applaudire medici e infermieri?

LA SCIENZA PROCEDE PER TENTATIVI ED ERRORI

L’epidemia di SARS-CoV-2 ci ha messo di fronte alla necessità di imparare a conoscere il virus e, contemporaneamente, rispondere. Tutti i processi di conoscenza procedono per tentativi ed errori: questo ha creato alcune apparenti contraddizioni. Una prima causa del disinnamoramento dei cittadini nei confronti della scienza può venire quindi dal processo stesso di formazione della conoscenza scientifica.

In ogni momento, possiamo capire ciò che si è reso evidente fino a quel momento, ma le previsioni che ne derivano possono essere smentite da conoscenze successive. Molti chiedono alla scienza certezze assolute, ma la scienza è un cammino. A due anni dall’esplosione della pandemia, compaiono nuove varianti generate nelle regioni del mondo a bassa copertura vaccinale. Omicron, un prodotto dell’evoluzione a trasmissione veloce, ha sparigliato le attese più ottimiste: scoprendo che la scienza non va per forza nella direzione che vorremmo noi, sono nate intolleranza e sfiducia. Si è fatto strada un sentimento di incertezza verso il futuro: visto che voi scienziati non riuscite a prevederlo, vuol dire che avete fallito. Ma la scienza non è fatta da veggenti: è, al contrario, gradualità della conoscenza.

LA RINCORSA AL VIRUS E IL BISOGNO DI CERTEZZA CHE LA SCIENZA NON PUÒ DARE

La pandemia non ha originato solo problemi sanitari, ma anche seri problemi sociali Ne ha parlato Elena Tebano sul Corriere del 2 febbraio commentando il bellissimo articolo di Kathryn Schulz intitolato “Making sense of our covid losses” (Dare un senso alle nostre perdite da Covid) pubblicato sul New York Times, che attraversa le tante sfumature del dolore: dalla perdita del lavoro, con lo sbandamento  psicologico oltre che materiale che questo comporta, al malessere dei bambini e adolescenti privati dei contatti con i coetanei, ai piccoli lutti di perdere le proprie abitudini di vita, i contatti, il tempo condiviso con gli altri, fino al definitivo lutto delle persone care portate via dalla COVID-19. Le persone si sono trovate di fronte a difficoltà materiali ed emotive mai incontrate in più di sessant’anni (l’ultima pandemia fu l’influenza asiatica degli anni 1958-60). Vorrebbero farsene una ragione, vorrebbero risposte certe. Ma su un fenomeno in divenire le risposte scientifiche “certe” sono impossibili. Il colpevole, allora, oltre che contro il piccolo virus che non accettiamo ci metta in ginocchio, deve essere la scienza che non ci ha saputi preservare. Anzi, di più: accusiamo la scienza di aver detto “tutto e il contrario di tutto”.

Prendiamo come paradigma i vaccini: inizialmente, si è detto che proteggevano dall’infezione, in seguito dalla malattia severa ma non dal contagio, generando grande confusione. A cosa credere? In realtà, sono vere tutte e 2 le cose ed è ancora la scienza a spiegarcelo. I primi studi sui vaccini, come quello di Pfizer/BioNTech – ricordiamolo, disegnato sul ceppo di SARS-CoV-2 isolato a Wuhan – attestavano una protezione dall’infezione immediatamente dopo l’immunizzazione. I dati, pubblicati dai ricercatori Pfizer insieme ad altri centri di ricerca della California su Lancet in ottobre 2021, venivano da uno studio retrospettivo dei primi 6 mesi di vaccinazione (iniziate a fine 2020) e si sono rivelati validi per tutte le varianti, fino a delta. Tuttavia, il monitoraggio dei vaccinati ha mostrato che la protezione dall’infezione declina dal 88% al 47% dal primo al quinto mese post vaccinazione, mentre la protezione dalla malattia grave e l’ospedalizzazione rimane costantemente elevata (90%). Pertanto, era vero che, in quell’arco di tempo, il vaccino proteggeva dall’infezione. Semplicemente, non si poteva stabilire per quanto oltre.

All’isolamento di Omicron, a dicembre 2021, il mondo scientifico si è subito impegnato per descriverne le caratteristiche di contagiosità ed evasione dal sistema immunitario (quindi, anche dagli anticorpi indotti dai vaccini), che hanno suscitato paura e sconforto. Ma solo ora si stanno accumulando notizie complete.

Ora sappiamo che la terza dose “booster” ripristina un’immunità neutralizzante contro Omicron (risultati di uno studio multicentrico coordinato da Harvard e pubblicati su Cell lo scorso dicembre). Sappiamo anche che, oltre alla risposta anticorpale, i linfociti T, “istruiti” da precedenti varianti del virus – e dai vaccini disponibili – riconoscono bene anche Omicron. I dati di uno studio multicentrico coordinato in Svezia sono stati pubblicati come “pubblicazione accelerata” in soli 2 mesi (Nature Medicine, gennaio 2022), una rapidità senza precedenti, eppure comunque non sufficiente per prendere misure di sanità pubblica.

LA NOTIZIA AD OGNI COSTO: IL CASO “DELTA-CRON”

In un bell’articolo uscito su EMBO Reports il 5 gennaio 2022, Frank Gannon, biologo molecolare ex-direttore del Queensland Institute of Medical Research Berghofer australiano, osserva che spesso i governi hanno dovuto prendere decisioni più sulla scorta di comunicati e conferenze stampa o di opinioni di esperti che, pur scientificamente validi, avevano ancora informazioni incomplete. Spesso, la risposta è stata (ed è): “non lo sappiamo ancora”. Si sono potute fare allora solo ipotesi in attesa di conferme o smentite dai dati scientifici. Nel flusso di informazione che si sposta dal processo di revisione scientifica, al comunicato stampa, e poi alla risposta della politica, nota Gannon, la qualità dell’informazione diminuisce sempre di più.

Gli stessi comunicati stampa e le opinioni di esperti vengono poi riportati dalle testate giornalistiche all’opinione pubblica, che si spazientisce cercando rassicurazioni immediate. Abbiamo anche assistito ad una sorta di “fame” di notizie sensazionali, ricorrendo a titoli allusivi, come “ecco la verità su…”, seminando sovente il panico. Un recente caso è quello della cosiddetta variante delta-cron, annunciata il 10 gennaio e ritrattata pochi giorni dopo. Delta-cron, la chimera perfetta di SARS-CoV-2, con la contagiosità di omicron e l’aggressività di delta, ha suscitato terrore. In realtà, si è trattato di un caso di contaminazione, che può verificarsi in laboratorio. Ciò dimostra quanto sia necessario verificare e controllare rigorosamente che il risultato sia solido e non un artefatto, quanto il processo di revisione sia tutt’altro che obsoleto e quanto la pressione a rilasciare in fretta i dati sia nociva.

DATI SCIENTIFICI E MISURE DI SANITÀ PUBBLICA

La ricerca biomedica fornisce alle istituzioni pubbliche le informazioni nel momento in cui le ottiene. Che le misure di sanità pubblica poi formulate dalle istituzioni si traducano in una crisi di fiducia nella scienza è un errore concettuale e una perdita grave per la società. 

Senza addentrarci nelle misure di sanità pubblica italiane, che si possono valutare più o meno ragionevoli, più o meno socialmente giuste o tollerabili, ragioniamo sui termini generali del problema che i governi devono affrontare nel prendere misure sanitarie nei loro Paesi. Omicron ha sconquassato le previsioni su cui si erano basate le misure sanitarie fino a quel momento. La domanda è: cosa fare adesso? Programmare una quarta dose nei paesi che hanno già avuto la terza dose booster o no?  Un articolo di Simonetta Pagliani su Scienza in Rete del 10 Gennaio evidenzia le difficoltà del rapporto tra scienza e politica confrontando le risposte in diversi Stati.

Israele, in una immediata risposta ad omicron, ha deciso di tracciare tutti con tamponi molecolari ed ha proposto la quarta dose per mettere al riparo i più fragili (anziani e immunocompromessi).

Negli USA, invece, scienziati e medici stanno riconsiderando l’efficacia di richiami ripetuti ogni pochi mesi. Il Journal of the American Medical Association (JAMA), in un editoriale del 6 gennaio scorso dal significativo titolo “A National strategy for the “new normal” of life with COVID”, critica il sistema sanitario americano rispetto alla gestione della pandemia e chiede un cambiamento di strategia basato su alcuni fondamentali elementi:  i) rafforzare il sistema sanitario pubblico in tutti gli Stati, rafforzando soprattutto il personale infermieristico, e ii) ridefinire il rischio reale per il Paese attraverso una puntuale gestione dei dati di tracciamento e di sorveglianza degli effetti avversi. Queste azioni, tenendo anche conto del recente sviluppo di antivirali promettenti di Merck e Pfizer, dovrebbero orientare, secondo JAMA, a ristabilire una vita il più possibile normale e non insistere sull’obiettivo di volere spazzar via il virus ad ogni costo. L’editoriale ricorda che non possiamo prevedere le future evoluzioni di SARS-CoV-2, nè tutte le caratteristiche della risposta immunitaria, compresa la sua durata. Occorre dunque ammettere con umiltà che non sarà facile controllare la pandemia solo con i vaccini. L’umiltà è indispensabile per ricostruire la fiducia dei cittadini nelle istituzioni pubbliche, scrive JAMA, notando che comunità come la Danimarca, in cui è alto il livello di fiducia nelle istituzioni ed il senso di reciprocità tra i cittadini, hanno registrato i tassi di ospedalizzazione e mortalità per COVID-19 più bassi.

Gli scienziati americani e israeliani analizzano la stessa realtà, ma le misure proposte dalle istituzioni riflettono l’intreccio tra conoscenza scientifica e peso delle condizioni in cui questa conoscenza va tradotta. La preoccupazione di Israele è tutelare una popolazione relativamente piccola (8 milioni), dove quindi non è difficile il tracciamento molecolare, ma che comprende nuclei di comunità religiose contrari alla vaccinazione e non troppo ligie ad applicare misure di contenimento, che rappresentano un piccolo serbatoio di circolazione del virus e in cui tutti sono a carico di un sistema sanitario interamente pubblico. Negli USA il problema è invece tutelare 400 milioni di persone dispersi in un territorio molto esteso, con diversi stili di vita dall’estremamente urbanizzato all’estremamente rurale, dal sovraffollato ai grandi spazi, con grandi diversificazioni tra i singoli Stati e sistemi sanitari largamente privati, ed un limitato potere di intervento federale. Gli USA vorrebbero contrastare la diffusione del virus, come tutti; non offrendo un sistema sanitario accessibile a tutti, il problema diventa convivere con la pandemia. Per completezza notiamo che, in gennaio, i medici dello Sheba Medical Center in Israele hanno dimostrato che la quarta dose non è tanto più efficace della terza riguardo ad Omicron; la scelta della quarta dose è stata quindi rivista anche in Israele; ma qui ci interessava mettere in luce le condizioni socio-politiche in cui possono maturare decisioni pubbliche. Se le misure sanitarie non vengono onestamente spiegate ai cittadini contestualizzandole rispetto alla realtà dei paesi, esse possono generare uno sbandamento, facendo apparire la scienza coma qualcosa di estremamente relativo.

A questo proposito, Geoff Mulgan, professore di intelligenza collettiva, politiche pubbliche e innovazione sociale all’University College di Londra, ha pubblicato un duro commento su Nature (COVID’s lesson for governments? Don’t cherry-pick advice, synthesize it).  Mulgan evidenzia l’incapacità dei governi di assumere in modo integrato le conoscenze scientifiche alla base delle misure sanitarie, andando invece a prendere quel che di volta in volta è funzionale a giustificare questo o quel provvedimento: il cosiddetto “cherry picking” (letteralmente, scegliere le ciliegie, ovvero scegliere, tra i dati disponibili, quelli che meglio si adattano alle scelte politiche).  Le autorità pubbliche dovrebbero spiegare chiaramente come le misure sanitarie siano modellate sulle condizioni del proprio paese, del proprio sistema sanitario e della propria economia. Non facendolo, trasmettono l’implicito messaggio che la scienza si possa “adattare” alle circostanze. Facendo finta che le decisioni politiche siano direttamente dettate dalla scienza, e non invece una conseguenza del suo adattamento empirico, si fa apparire incoerente la scienza stessa, la quale invece fornisce dati e informazioni, non le misure. Il risentimento dei cittadini contro la scienza non si può ignorare e crea una disintegrazione della conoscenza collettiva che danneggia tutti.

FRANGE DI OPPOSIZIONE IRRAZIONALE

Dopo due anni, non entreremo ancora nella disamina degli atteggiamenti di rifiuto basati sull’ideologia, non conoscenza o incomprensione (eppure, c’è stato modo per informarsi almeno al livello elementare, come la maggior parte degli italiani ha fatto). Restano isole di contrapposizione in cui tutti ci siamo imbattuti (“non sappiamo cosa c’è dentro”, “il vaccino ci cambia il DNA”, “il vaccino non funziona ma ce lo impongono per controllarci” etc.). Non si tratta sempre di genuini dubbi o paure, che devono trovare ragionevoli risposte, ma di una distorsione, a volte fin negazione, dei dati di realtà. Questa parte pur minoritaria del paese ha raggiunto manifestazioni di una certa ferocia.

Una lettera anonima, contenente proiettili, è stata recapitata ad Antonella Viola, immunologa dell’Università di Padova e direttrice dell’Istituto di ricerca pediatrica Città della Speranza. Dice la lettera: “Se non cambia le sue interviste dicendo che i bambini non vanno vaccinati saremo ben lieti di colpire lei e la sua famiglia. Tranquilla, non morirà nessuno ma due pallottole calibro 22 nella pancia e nelle ginocchia non uccidono, fanno solo un gran male. Non seguiranno altri comunicati”. Viola e la sua famiglia sono ora costretti a vivere sotto scorta.

Accanto alle aggressioni, assistiamo anche all’autolesionismo. Un 27enne no vax è morto all’ospedale di Latina dopo essersi sfilato il casco per la respirazione assistita e aver respinto ogni cura. Nello stesso ospedale è stato ricoverato il padre 55enne, anche lui non vaccinato. Arriva in condizioni gravi, lo intubano, lo trasferiscono d’urgenza al policlinico Umberto I di Roma. Qualche giorno dopo si ammalano il fratello e la madre, ma rifiutano il ricovero. Come il ragazzo morto, tutti fieramente non vaccinati. Questo va oltre la diffidenza sul vaccino: siamo al sacrificio di sè. Morire rifiutando le cure, come per un ideale superiore, va oltre.  Nella sua drammaticità, manifesta il paradosso assoluto: tenevi tanto alla vita da non volerti iniettare nulla di cui tu non fossi sicuro, e spingi la diffidenza al punto di morire… Forse in quel gesto di sfilarsi il casco c’è l’incoscienza di un ragazzo che a 27 anni si sente forte, sicuro che alla fine sarà lui a vincere perché non potrà un piccolo virus mettere la parola fine alla sua esistenza. È un gesto di sfida a chi cerca di salvarti, a chi sta lì la notte a regolarti l’ossigeno. La sproporzione tra questa sfida e la tragedia che segue è orribile: il ragazzo si toglie il casco e muore.

IN CAMMINO COL VIRUS

SARS-CoV-2 è stato, finora, sempre in anticipo rispetto alla scienza. L’avvento dei vaccini e di nuove terapie, come il Molnupiravir (Merck) e Paxlovid (Pfizer), segnano un cambio di passo. Ora possiamo dire che stiamo forse camminando insieme al virus, adattando costantemente le politiche sanitarie alla sua evoluzione. Ma, piaccia o no, la scienza non può magicamente predire ciò che il futuro ci riserva, anche se delle attese si possono avere, sulla base dell’andamento della pandemia nei mesi passati. Ma i fenomeni di opposizione irriducibile devono far riflettere. Screditare la scienza, disconoscere il valore dello studio, della ricerca, dell’osservazione medica rigorosa, segnerà una involuzione grave della società se la tendenza non si ferma.