Pareri a confronto

Eutanasia: un falso problema
di FERNANDO ALEMANNO, ALDO LUZZANI e GIORGIO MASSERA

Fernando Alemanno – Primario di Anestesia Rianimazione e Terapia del Dolore, Ospedale di Bolzano 1978-1997; Fondazione Don Carlo Gnocchi Brescia.

Aldo Luzzani – Direttore Dipartimento di Scienze Anestesiologiche e Chirurgie Specialistiche; Direttore Scuola di Specializzazione in Anestesia e Rianimazione dell’Università di Verona; Componente del Comitato di Bioetica dell’Azienda Ospedaliera di Verona.

Giorgio Massera – Primario Emerito Anestesia e Rianimazione Ospedale di Treviso 1955 -1985.

Introduzione

Nel XX secolo la morte ha rimpiazzato il sesso come principale interdizione.

Una volta si diceva ai bambini che erano nati sotto un cavolo, ma essi assistevano alla grande scena degli addii nella camera ed al capezzale del morente. Oggi i bambini sono iniziati, fin dalla più giovane età, alla fisiologia dell’amore e della nascita, ma quando non vedono più il nonno e domandano il perché, si risponde loro in Francia, che è partito per un viaggio molto lontano, in Inghilterra, che riposa in un bel giardino in cui spunta il caprifoglio.

Non sono più i bambini che nascono sotto i cavoli, ma i morti che scompaiono tra i fiori

Questo scriveva Ariès nel suo “Essais sur l’histoire de la mort” (1). L’uomo d’oggi sempre più autosufficiente, sempre più dotato di soluzioni tecniche per ogni problema ma sempre più lontano dai valori religiosi che lo sostenevano nell’affrontare il grande mistero della morte, cerca una soluzione, una scappatoia, nella tecnicizzazione della stessa affidando il morente a quanto scienza, tecnica e burocrazia sono in grado di offrire, alla corsia di un ospedale. È in questo contesto che, a fronte di un’incapacità medica a risolvere in parte o del tutto il problema della sofferenza, può configurarsi raramente (almeno nella nostra esperienza) da parte del paziente, più spesso da parte dei parenti, la richiesta d’eutanasia. Nel luglio 1974 viene pubblicato su “The Humanist” il “Manifesto sull’Eutanasia” a firma fra gli altri dei Nobel sir George Paget Thomson, Linus Pauling e Jacques Monod. Esso così recitava:

“Non può esservi eutanasia umanitaria al di fuori di quella che provoca una morte rapida ed indolore ed è considerata un beneficio dell’interessato. È crudele e barbaro esigere che una persona venga mantenuta in vita contro il suo volere e che le si rifiuti l’auspicata liberazione, quando la sua vita ha perduto qualsiasi dignità, bellezza, significato, prospettiva di avvenire. La sofferenza inutile è un male che dovrebbe essere evitato nelle società civilizzate”

Dieci anni dopo, il 19 dicembre 1984, viene presentata alla Camera Dei Deputati la Proposta di Legge N. 2405 d’iniziativa dei deputati Fortuna, Artioli, Trappoli, Scaglione, Fincato, Grigoletto, Mundo, Alberini, Fiandrotti, intitolata: “Norme sulla tutela della dignità della vita e disciplina dell’eutanasia passiva”, In Aprile 2006 in Olanda è passata la legge che legalizza l’eutanasia, seguita dal Belgio nel maggio ultimo scorso. La pressione psicologica sulla classe medica in genere e su quella degli anestesisti-rianimatori in particolare, continua investendola di nuove inquietanti responsabilità, nel tentativo di medicalizzare i più diversi sia pur estremi problemi umani. È innanzitutto necessario fare chiarezza su alcuni concetti che male intesi possono portare a conclusioni apparentemente logiche ma in realtà fuorvianti.

Il primo è il concetto di accanimento terapeutico, il secondo è il concetto di dignità della vita che la proposta di legge n. 2405 mira a tutelare disciplinando l’eutanasia. Essa, pur se datata, giace in qualche cassetto in attesa di nuovi mentori che la ripropongano, magari opportunamente modificata.

ACCANIMENTO TERAPEUTICO

Perché ci sia accanimento terapeutico devono coesistere:

  1. l’inutilità della terapia
  2. la sofferenza del malato

Se il malato è in coma non sussiste accanimento terapeutico, ma solo semmai una terapia inutilmente dispendiosa, stupidamente prolungata; mai accanimento perché manca la sofferenza.

Per scendere nel concreto le patologie che possono porre problemi comportamentali sono fondamentalmente l’insufficienza respiratoria e lo stato di coma. Per quanto riguarda l’insufficienza respiratoria, dopo l’entusiasmo iniziale, il nostro atteggiamento si è fatto decisamente più cauto, nel senso che, a partire dagli anni ’70, è prevalso il concetto che la broncopneumopatia cronica non dovesse essere trattata dal punto di vista rianimatorio a meno che l’insufficienza respiratoria fosse dovuta ad un processo acuto sovrapposto, responsabile della rottura dell’equilibrio instabile in cui viveva il paziente. Senza entrare in dettagli è certo che la possibilità di nuove metodiche di ventilazione (Ventilazione assistita, SIMV, NIV, CPAP), ci hanno reso meno pessimisti verso molte insufficienze respiratorie ipercapniche, anche senza la sovrapposizione di un processo acuto evidente. Siamo invece tutt’ora pessimisti sulle forme di broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) che presentino un aggravamento dell’insufficienza respiratoria non su base flogistica. Riteniamo inoltre che al momento possano trarre vantaggio molto limitato e dubbio dalla ventilazione assistita le forme di broncopneumopatia cronica restrittiva, se non ricorrendo a tracheotomia e ventilazione artificiale domiciliare. Trattandosi di pazienti coscienti, o che riacquistano rapidamente la coscienza, il trattamento rianimatorio, una volta iniziato, viene continuato sino a portare il paziente almeno alle condizioni basali che gli permettevano un certo tipo di vita o fino all’exitus per complicazioni sovrapposte. Tuttavia molte situazioni considerate in passato senza via d’uscita si possono oggi trattare con ventilazione artificiale assistita sia con misure non invasive (BIPAP, press. assistita in maschera nasale e/o facciale) o con tracheostomia e ventilazione domiciliare, sempre che sia stata espressa una chiara volontà di sottoporsi a tali misure terapeutiche. Molte perplessità abbiamo avuto se iniziare la rianimazione per i casi coscienti in insufficienza respiratoria da malattia degenerativa neuro muscolare. L’ideale sarebbe lasciare a questo paziente, reso edotto della sua realtà, la decisione di accettare una qualità di vita dipendente da una macchina in un ambiente diverso da quello delle Rianimazioni e Terapie Intensive (camere singole, possibilità di visita parenti ecc.) che al momento la nostra società non è in grado di offrire.

Sono a questo proposito emblematici i due casi recentissimi di Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare e di Cesare Scoccimarro affetto da sclerosi laterale amiotrofica, sindromi ad etiologia e patogenesi diversa ma accomunate dalla stesso tragico decorso: la paralisi muscolare progressiva estrema che li porta a comunicare solo con i movimenti degli occhi e che ha già messo per entrambi fuori causa anche i muscoli respiratori, condannandoli ad una protesi respiratoria (un respiratore automatico) per poter sopravvivere. Ebbene, dei due il primo ha chiesto l’eutanasia rivolgendo venerdì 22 settembre 2006 un appello al Presidente della Repubblica, il secondo afferma invece che nonostante il suo corpo lo stia abbandonando, vuole continuare a vivere. Tale voglia ha voluto esprimerla anche interpretando un film dal titolo: “Un amore inguaribile”.

Veniamo ora al problema più complesso, quello del coma da lesione cerebrale organica.

Circa la patologia cerebrovascolare, sulla base dell’esperienza fatta, riteniamo che non siano da rianimare le emorragie cerebrali parenchimali massive con inondazione ventricolare. Per le trombosi si debbono sicuramente prendere in considerazione le forme acute quando l’evento è recentissimo (da trenta minuti a poche ore) e quindi ancora reversibili con il trattamento farmacologico. L’incertezza prognostica impone tuttavia quasi sempre un approccio interventistico in urgenza-emergenza, riservando, in tempi successivi al chiarimento diagnostico, le ulteriori decisioni terapeutiche. Restando al nostro problema si tratta di stabilire quando lo stato di coma può essere considerato morte. Per la morte cerebrale non ci sono problemi circa la sospensione delle cure rianimative. In effetti si sa esattamente quando e come accertare la morte da un punto di vista giuridico quando si tratta di prelevare un organo. Una volta accertata la morte dalla Commissione medica (Rianimatore, Medico Legale, Neurologo esperto in EEG) si può interrompere la ventilazione artificiale.

La posizione più logica e corretta è quella di rispettare i tempi prescritti dalla legge sul prelievo di organi. Al termine del periodo prescritto si può scegliere fra tre vie:

– troncare ogni mezzo di supporto artificiale delle funzioni vitali (l’arresto cardiocircolatorio               segue nel tempo di pochi minuti);

-mantenere tutto il sistema rianimativo fino a che l’attività cardiaca si arresti (in tal caso la vita artificiale può durare anche settimane);

– ridurre l’assistenza al minimo, arrivando anche a lasciare l’ossigenazione solo per diffusione attraverso il tubo tracheale (la morte cardiaca segue nel giro di alcuni minuti o al massimo di qualche ora).

Personalmente propendiamo per la prima o per la terza soluzione tenendo conto dei problemi affettivi o psicologici dei parenti, senza peraltro fare mai gravare su questi la responsabilità della decisione. Del resto il codice deontologico italiano in vigore dal 1978 nel suo articolo 40 così recitava:

In nessun caso il medico, anche se richiesto dal paziente o dai suoi familiari, deve attuare mezzi atti ad abbreviare la vita di un malato. Tuttavia, nel caso di malattia a prognosi sicuramente infausta a breve scadenza e ad onta delle cure, il medico può limitare la propria opera all’assistenza morale e alla prescrizione ed esecuzione della terapia atta a risparmiare al malato inutili sofferenze. La decisione di porre termine all’uso di mezzi di sopravvivenza artificiale nei casi di coma irreversibile, tenuto conto del parere dei familiari, sarà assunta in funzione delle conoscenze mediche del momento”.

Il nuovo codice in vigore dal 3 Ottobre 1998 dedica il capitolo V° all’Assistenza ai malati inguaribili con l’Art 36 Eutanasia: “Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti diretti a provocarne la morte” e con l’Art. 37 Assistenza al malato inguaribile: “in caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve limitare la sua opera all’assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità di vita. In caso di compromissione dello stato di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile. Il sostegno vitale dovrà essere mantenuto sino a quando non sia accertata la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”.

Vengono dunque mantenuti: l’apporto idroelettrolitico, l’intubazione tracheale, la nutrizione enterale, la toilette tracheobronchiale, l’igiene del corpo e in generale l’assistenza infermieristica.

I casi in queste condizioni possono essere definiti, per differenziarli con quelli di morte encefalica, casi di morte del tronco cerebrale o morte mesencefalica. Nei primi l’encefalo è totalmente distrutto, nei secondi sono irrimediabilmente distrutti i centri che presiedono al mantenimento della coscienza e all’armonioso funzionamento dei vari organi ed apparati. Poco conta che siano risparmiati i centri bulbari che presiedono esclusivamente alla funzione respiratoria e circolatoria che però non hanno alcun significato di vita umana nel senso proprio del termine.

Quindi si ribadisce l’equazione vita = coscienza anche se lo stato di coscienza può voler dire vita grama. Esempio limite di vita grama è la sindrome locked-in degli autori anglosassoni, ove per lesioni vascolari (trombosi dell’arteria basilare) o traumatiche si ha la distruzione di una parte del tronco cerebrale con risparmio del mesencefalo e degli emisferi cerebrali. Il paziente appare in coma profondo con i riflessi del tronco assenti, ma un’accurata indagine elettroencefalografica rivela che la coscienza è conservata e questo può essere verificato sottoponendo il paziente a stimoli visivi e acustici. Il paziente può riuscire a comunicare in codice usando la sola attività volontaria di cui è capace: i movimenti delle palpebre. In questi soggetti il problema di sospendere unilateralmente le cure non si pone: tutto deve essere fatto per facilitare la loro capacità di comunicazione.

Vi sono infine i pazienti in coma che, dopo una certa evoluzione, entrano in una condizione stabile che, comunque venga chiamata (sindrome apallica, stato vegetativo), è caratterizzata dalla mancanza di qualunque contatto psicologicamente valido con l’ambiente. Almeno con questa patologia non ci sono per il rianimatore angosciosi dilemmi: si tratta di pazienti stabilizzati in respiro spontaneo, la cui sopravvivenza dipende da un’assistenza medico infermieristica generica, ma non dai mezzi straordinari della rianimazione; cade quindi ogni dubbio su una eventuale terapia da sospendere. Inoltre questi soggetti, hanno, soprattutto se giovani, la possibilità di recuperare una coscienza, sia pur elementare. Recenti indagini con RMN funzionale hanno sollevato seri dubbi sulla totale assenza di contatto con l’ambiente. Essi restano comunque un problema per l’organizzazione sanitaria e sociale. 

Proposta di legge N° 2405 del 19 dicembre 1984

Norme sulla tutela della dignità della vita e disciplina dell’eutanasia passiva

La dignità che la legge intende tutelare è quella del malato terminale, che sarebbe oggi offesa, secondo i proponenti, da un comportamento medico aberrante, l’accanimento terapeutico, caratterizzato da insensatezza, in quanto praticato con la consapevolezza della sua inutilità, e crudeltà, in quanto prolunga inutilmente le sofferenze del malato. Nella relazione illustrativa (RI) (pag. 4) si afferma che “il divieto dell’accanimento terapeutico è lo scopo fondamentale della legge”, “in presunzione del generale rifiuto ad esservi assoggettati”. Non viene riportato alcun dato statistico circa la sua reale frequenza negli ospedali italiani, mentre se ne indicano le cause: “l’eccessivo scrupolo professionale” (?), “una sorta di sfida prometeica della medicina moderna alla morte” (??), “la volontà del potere di prolungare la spinta emotiva che accompagna la fine di grossi personaggi della vita pubblica” (che però non riguarda la casistica italiana).

La diffusione di tale illecito è data per scontata sulla base di numerose dichiarazioni, raccomandazioni e risoluzioni emanate in questi ultimi anni (RI pag.2) da istituzioni culturali, politiche e religiose nazionali e internazionali, che ne attestano la generale e forte presunzione, ma non la provano per questo nella realtà medica italiana. L’accanimento terapeutico, proprio perché insensato e crudele, non viene di regola praticato nelle Rianimazioni in Italia.

La medicina italiana non ha deviato dalla sua luminosa tradizione di sapiente equilibrio tra ragione e pietà e tra coraggiosa assunzione delle doverose iniziative e doverosa prudenza.

Sono invece oggi più frequenti le situazioni che hanno l’apparenza di un deteriore accanimento terapeutico. Una prima causa è il continuo ridursi dei confini dell’irreversibilità degli stati patologici, in seguito al quale il medico è doverosamente tenuto ad estendere le indicazioni del suo intervento a casi sempre più gravi. Il profano giudica purtroppo la razionalità di tali interventi sulla base del risultato. Non si può escludere a priori un errore di valutazione da parte del medico, ma non può che essere episodico, tenuto conto della elevata qualificazione degli addetti alle terapie intensive nei nostri ospedali; né va trascurato il fattore tempo e la situazione d’urgenza-emergenza che può impedire una precisa e accurata diagnosi. Una seconda causa è la complessità, talora sconcertante per il profano, dei trattamenti sotto il profilo tecnico strumentale, che facilmente presume un onere intollerabile per il malato. In realtà molti trattamenti intensivi sono potenzialmente onerosi per il malato critico cosciente. Va però affermato che a seguito dei progressi compiuti nel campo del controllo della sofferenza in generale e del dolore fisico in particolare, l’anestesista oggi può praticare e pratica sistematicamente i dovuti trattamenti anche intensivi senza alcuna offesa alla dignità del suo malato. Il binomio Anestesia-Rianimazione è la garanzia di tutto ciò.

Il malato adeguatamente sedato o di per sé in stato di incoscienza o di coma, non presenta problemi di dignità personale da salvaguardare, se non del tutto esteriori e formali, che la normale assistenza ospedaliera peraltro è in grado di risolvere pienamente.

Le realtà cliniche ed umane della malattia grave e della morte sono poco conosciute e sono difficili da volgarizzare, perché sono divenute, a causa dei progressi della rianimazione, molto complesse.

Gli stessi medici che non le vivono in prima persona non si orientano facilmente davanti a situazioni assolutamente differenti, ma spesso confuse fra loro, quali il coma depassè, il coma prolungato, il coma irreversibile, il coma vigile, lo stato vegetativo, ecc. È pertanto molto facile la loro erronea interpretazione da parte dei mezzi d’informazione e dell’opinione pubblica, ed è nel contempo altrettanto facile la loro strumentalizzazione in favore dell’eutanasia. Un’obbiettiva riconsiderazione dei casi più clamorosi che hanno colpito l’opinione pubblica e che vengono di continuo sfruttati per la loro potente risonanza emotiva, consente di ridimensionare l’intero problema. Per quanto riguarda i capi di stato, va precisato che sia Franco sia Tito entrarono in coma fin dall’inizio della loro malattia terminale e tutto quanto di inutile fu fatto nei molti giorni successivi non determinò un prolungamento delle loro sofferenze e non recò pertanto nessuna offesa, nella sostanza, alla loro dignità. Certo costituirono due esempi di umiliante asservimento della medicina alla ragion di stato, ma nulla più. Quanto al presidente dell’Argentina Peron, i ripetuti interventi operatori cui fu sottoposto per recidivanti occlusioni intestinali secondarie a peritonite, rispondevano ad una razionalità chirurgica ineccepibile, che non è lecito negare per il fatto che non ebbero successo.

Ci sono poi i casi, numerosi purtroppo di sopravvivenza vegetativa, di cui i più noti sono stati la fanciulla americana Anna Karen Quinlan e lo sciatore Leonardo David, che costituiscono il pesantissimo prezzo pagato per il numero fortunatamente molto più alto di malati che si riescono a recuperare sottoponendo a terapia intensiva tutti i cerebrolesi acuti. Sono esseri umani gravemente menomati che costituiscono un pesantissimo onere sociale e familiare, per i quali però non può essere addebitato a nessuno alcunché di insensato e neppure di crudele, data l’impossibilità di prevedere il risultato di tali terapie e data la condizione di totale incoscienza in cui si trovavano tali soggetti fin dall’inizio della loro sfortunata vicenda. Le loro presunte sofferenze sono in realtà le sofferenze di chi li assiste.

Stando così le cose l’accusa di accanimento terapeutico non può essere accettata per inesistenza dell’illecito perseguito.

Ma la gravità dell’addebito imputato alla medicina moderna, la superficialità con la quale il fenomeno dell’accanimento terapeutico è stato analizzato, il sistematico sfruttamento strumentale dei soli aspetti emozionali della casistica nonchè le numerose ambiguità presenti nel testo della proposta, autorizzano a sospettare che essa sia, oltre che immotivata, pretestuosa e mistificante.

Una prima grossa ambiguità è la definizione di malato terminale (art. 2). Secondo il linguaggio corrente, anche medico, s’intende tale il malato che sia pervenuto all’ultima fase di un processo morboso evolutivo, per il quale la morte naturale si presenti sicuramente imminente.

Per i proponenti, invece, è terminale il malato genericamente “incurabile” la cui sopravvivenza è condizionata dall’applicazione di una “terapia di sostenimento vitale”. Ma la definizione di tale terapia (art. 3) è talmente vaga e incompleta (basti ricordare che l’articolo definisce ciò che essa è “principalmente”!), da potervi comprendere tutto e cioè anche le prestazioni minime, quali l’ossigenoterapia inalatoria, l’alimentazione nasogastrica ecc. Con tali due definizioni la legge verrebbe ad interessare categorie estremamente eterogenee ed estese di malati, dagli insufficienti funzionali cronici (respiratori, cardiaci, epatici, renali) ai portatori di malformazioni congenite o di esiti stabilizzati di pregresse forme acute, come le sopravvivenze vegetative, ed ancora molte forme psichiatriche, le demenze senili, arteriosclerotiche.

Si spiega allora l’ambiguità del titolo, là dove si estende la tutela della dignità all’intera vita e non soltanto alla morte! Con una legge siffatta si predisporrebbero i mezzi legali per una radicale bonifica delle condizioni di vita che si ritenessero di qualità scadente dalla nascita in poi!

È quanto viene del resto affermato nella Relazione Illustrativa (R.I.) a pag.1, là dove è detto che” …l’ordinamento giuridico non può essere indifferente alla morte come fatto liberatorio da una esistenza che si ritenga (da chi?) troppo dolorosa per poterla naturalmente concludere o far concludere o per doverla artificialmente prolungare”. Si noti l’indeterminatezza di quel “si ritenga” e l’insistente riferimento alla motivazione pietosa di quel “dolorosa”.

La clausola contenuta nell’articolo 1, apparentemente garantista in quanto assicura la prosecuzione delle terapie nei pazienti terminali che diano ed esse “personale e consapevole consenso”, esclude di fatto tutti quelli che per età o malattia non siano in grado di esprimere la loro volontà.

Una ulteriore ambiguità sostanziale è presente nell’art.1. La “dispensa” dei medici dal praticare terapie di sostenimento vitale nei malati terminali, fa pensare ad un provvedimento di natura solo depenalizzante. In realtà esso è impositivo, e non potrebbe non esserlo data la gravità dell’illecito (offesa alla dignità della vita).

Il carattere impositivo del provvedimento è dimostrato:

  1. dalla esplicita già ricordata dichiarazione, contenuta nella R.I. (pag. 4), che lo scopo essenziale della legge è il “divieto” dell’accanimento terapeutico;
  2. dalla fondatezza giuridica dell’asserto che la dispensa da un comportamento illecito è in sostanza un suo divieto;
  3. dalla precisazione, sempre contenuta nella R.I. (pag. 5), che la dispensa (istituto giuridicamente ambiguo) è stata preferita all’esplicito divieto per ragioni solo formali;
  4. dal fatto che l’accertamento del cosiddetto stato terminale è devoluto ad un medico funzionario dell’ASL (art. 4) che è anche l’unico che “dispone” la sospensione delle cure (art. 5), demandando la decisione in caso di opposizione dei familiari, al Presidente del Tribunale (!);
  5. dal fatto che la richiesta di accertamento da parte del medico curante (di cui all’art. 4) non è affatto discrezionale, bensì dovuta, se si interpreta la parola dispensa come divieto;
  6. dal compito di vigilanza sull’applicazione della legge attribuito al coordinatore sanitario dell’ASL (art. 8) con lo specifico compito di segnalare eventuali infrazioni agli organi competenti e cioè alla Procura della Repubblica.  

Un provvedimento impositivo in materia di condotta terapeutica che non ha precedenti storici in tutti i paesi occidentali in quanto incompatibile con la libertà della professione medica. Verrebbe imposto un protocollo terapeutico, anche se in negativo, che ne limiterebbe l’esercizio, creando un vero e proprio stravolgimento dell’impostazione giuridica delle libere professioni (stiamo parlando di giurisprudenza). Solo la Federazione degli Ordini dei Medici può prescrivere norme di comportamento che rientrano in quel codice deontologico che per legge tutti i medici debbono rispettare. Va precisato che per quanto riguarda il malato terminale fin dal 1978 è stato introdotto un apposito articolo (il 40) che vale la pena di ricordare: “…nel caso di malattia a prognosi sicuramente infausta a breve scadenza e ad onta delle cure, il medico può limitare la propria opera all’assistenza morale ed alla prescrizione ed esecuzione della terapia atta a risparmiare al malato inutili sofferenze. La decisione di porre fine all’uso di mezzi di sopravvivenza artificiale nei casi di coma irreversibile, tenuto conto del parere dei familiari, sarà assunta in funzione delle conoscenze del momento”.

Il cosiddetto paziente terminale è sì inguaribile, ma non incurabile e deve essere compito ineludibile e deontologicamente elevato del medico accompagnarlo nelle ultime fasi della vita affinché questa risulti qualitativamente accettabile, fino ad un trapasso dignitoso e sereno, riconquistando così una dignità della morte che si è ultimamente andata perdendo (2).

Il problema del malato terminale e di quello in coma irreversibile è dunque un problema che resta essenzialmente medico e che va considerato già sufficientemente risolto sotto il profilo deontologico.

Pertanto oltre che immotivata, la proposta si presta ad applicazioni aberranti che forse non erano neppure nelle intenzioni dei propositori. Essa inoltre non è rispettosa del nostro ordinamento giuridico per quanto riguarda l’esercizio delle libere professioni.

A questa storica proposta di legge a favore dell’eutanasia altre ne sono seguite forse meno dettagliate ma in complesso di contenuti paralleli e sotto molti aspetti sovrapponibili. Non le esamineremo nei dettagli ma ci limiteremo ad elencare quelle di cui siamo venuti a conoscenza:

-Atto Camera n. 2974
Titolo: Disposizioni in materia di legalizzazione dell’eutanasia
Presentatore: On. Giuliano Pisapia (Rifondazione Comunista)

-Atto Camera n. 3132 – presentato in data 4 settembre 2002
Titolo: norma in materia di eutanasia
Presentatore: On. Giuliano Pisapia (Rifondazione Comunista)

-Atto del Senato n. 2758 – presentato in data 13 febbraio 2004
Titolo: Norme per la depenalizzazione dell’eutanasia
Presentatore: Sen. Alessandro Battisti (Margherita)

-Atto Senato n. 3726 – presentato in data 11 gennaio 2006
Titolo: Norme sulla tutela della dignità della vita e disciplina dell’eutanasia
Presentatore: Sen. Roberto Biscardini (Rosa nel pugno)

– Atto Camera n. 6269 – presentato in data 17 gennaio 2006
Titolo: Norme sulla tutela della dignità della vita e disciplina dell’eutanasia
Presentatore: On. Enrico Buemi (Rosa nel Pugno)
Peraltro non mancano le proposte di legge contrarie all’eutanasia:

-Atto Camera n. 3495 – presentata in data 19 dicembre 2002
Titolo: disposizioni concernenti il divieto di eutanasia
Presentatore: Alessandro Cè (Lega Nord).

Ultima in ordine di tempo il 5 ottobre 2006 a firma di Marco Beltrandi et Al., è stata riproposta, opportunamente modificata, una legge similare alla proposta di legge N° 2405-1984 avente lo stesso titolo: “Norme sulla tutela della dignità della vita e disciplina dell’eutanasia” ed in pratica le stesse finalità. Siamo d’accordo su ciò che gli Autori definiscono lo scopo fondamentale della legge e cioè evitare l’accanimento terapeutico (però nei termini da noi sopra riportati che lo definiscono chiaramente). Siamo d’accordo nel rispettare la libera scelta del paziente cosciente (o che ha riacquistato la coscienza dopo un trattamento rianimativo), affetto da insufficienza respiratoria dovuta a malattia degenerativa neuro-muscolare, di accettare o meno una qualità di vita dipendente da una macchina. In caso di legittimo rifiuto (ogni atto terapeutico prevede il consenso del paziente) la morte sopravverrebbe (in presenza di una adeguata somministrazione di ossigeno, che eliminerebbe la sofferenza per fame d’aria) per il progressivo instaurarsi della provvidenziale carbonarcosi (per aumento della CO2) che accompagnerebbe il paziente prima al sonno e poi alla morte nel modo più naturale. Siamo invece assolutamente contrari all’eutanasia attiva che la legge vorrebbe regolamentare. Non si deve togliere la vita per togliere il dolore e la sofferenza; il nostro scopo deve essere togliere, con i mezzi che la moderna farmacologia e tecnologia antalgica mette oggi a disposizione, il dolore e la sofferenza anche se l’applicazione di una adeguata ed efficace terapia dovesse portare in qualche caso ad un abbreviamento della vita residua, a vantaggio però della sua qualità.

Abbiamo voluto sfogliare su questo argomento anche la letteratura internazionale e abbiamo così constatato dubbi, opinioni e prese di posizione che agitano il mondo scientifico. Così Zamperetti, Bellomo, Dan e Ronco sottolineano che il problema più importante nella applicazione della medicina ad alta tecnologia è il rischio di manipolare il processo del morire e che questo pone importanti problematiche che devono essere dibattute in modo trasparente nell’interesse sia della società, sia del paziente sia della medicina avanzata (3). White, Randall, Lo e Luce affermano che per il 16% dei pazienti ammessi in Terapia Intensiva del S. Francisco General Hospital mancava la capacità di prendere decisioni. La decisione di interrompere le cure di sostegno vitale era generalmente presa dai medici senza il supporto di pareri legali o istituzionali. Concludono che ulteriori ricerche e dibattiti sono necessari per sviluppare le strategie sul “che fare” nei casi difficili (4). Robert D.Truog si esprime in maniera efficace contro la proposta di togliere la vita per togliere la sofferenza: we should be careful not to “throw the baby with the bathwater” (5).

Infine, per capire quanto l’argomento sia dibattuto e quanto fermento abbia innescato, la rivista Intensive Care Medicine ha deciso di pubblicare una nuova sezione intitolata “End of life from practice to law” (6). Lo scopo di questa nuova sezione è informare i lettori in che modo in ogni paese, da Israele (7) all’India (8) alla Spagna (9), si affrontano questi difficili problemi, come le differenze culturali nazionali vengano tradotte in legge, in che misura sia accettata e garantita l’autonomia del paziente, se le direttive più avanzate siano legalmente accettate; può ognuno designare un delegato e qual è il suo reale potere? Protegge la legge i diritti del paziente e autorizza il medico a sospendere i trattamenti di supporto vitale? L’Editoriale conclude sperando che la nuova sezione stimoli il dibattito tra gli intensivisti di tutto il mondo.

È doveroso aggiungere una postilla sulla presunta colpevolezza della Chiesa nel limitare il diffondersi della somministrazione di farmaci analgesici ai pazienti terminali affetti da dolore da cancro, all’insegna che la sofferenza possa rappresentare la sublimazione di una vita o l’espiazione della stessa vissuta nel peccato.  Noi non siamo affatto d’accordo con questa affermazione diventata ormai un luogo comune, reiterato pedissequamente nei saggi, nei trattati, negli opuscoli. È ora di sfatare questo preconcetto dettato sicuramente dall’ignoranza, ma anche talvolta dal sottile piacere di gettare discredito sulla Chiesa. Sin dagli anni Cinquanta la Chiesa ha preso posizione ferma ed inequivocabile su questo argomento. Sedeva allora, sul trono di Pietro, Pio XII, papa sicuramente di grande cultura e di grande rigore, ma anche di grande prudenza di cui certamente tutto si poteva dire tranne che fosse un progressista. Si teneva a Roma nel 1956 dal 15 al 17 ottobre il IX Congresso Nazionale della Società Italiana di Anestesiologia. Il Prof. Piero Mazzoni titolare della Cattedra di Anestesiologia dell’Università “La Sapienza” di Roma ed il Prof. Bruno Haid, titolare della cattedra di Anestesiologia dell’Università di Innsbruck, presentano al Papa tre quesiti di morale medica riguardanti l’anestesia, la rianimazione e l’analgesia:

  1. Esiste un obbligo morale di rifiutare l’analgesia e di accettare il dolore per spirito di fede?
  2. La privazione della coscienza e dell’uso delle facoltà superiori provocata dai narcotici è compatibile con lo spirito del Vangelo?
  3. È lecito l’uso dei narcotici per morenti o malati in pericolo di morte quando esista per questo un’indicazione clinica? Possono venir usati anche se l’attenuazione del dolore probabilmente si accompagna con l’accorciamento della vita?

Il Papa vista la gravità e l’importanza della questione morale posta si prese quattro mesi di tempo per rispondere. In un apposito incontro promosso dal Prof. Luigi Gedda, direttore dell’Istituto Mendel, Pio XII, sabato 23 e domenica 24 febbraio 1957, espone le norme direttive della dottrina cattolica sull’argomento (1)

Conclusione e Risposta alla Terza Questione

“Riepilogando, voi Ci chiedevate: “La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici (quando è richiesta da una indicazione medica), è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente (anche all’avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita)?” Si dovrà rispondere: “Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: Si”.

Come abbiamo già spiegato, l’ideale dell’eroismo cristiano non impone, almeno in modo generale, il rifiuto di una narcosi d’altronde giustificata, sia pure all’avvicinarsi della morte; tutto dipende dalle circostanze concrete. La risoluzione più perfetta e più eroica può trovarsi tanto nell’accettazione che nel rifiuto”.

Questa risposta, se male interpretata, aprirebbe una via d’uscita al divieto di eutanasia.

Chiarissimo a questo proposito il cardinale Joseph Ratzinger, il futuro Benedetto XVI, allora Prefetto della “Congregazione per la Dottrina della Fede” che nel 1980 espresse il suo no alla eutanasia chiarendo ulteriormente il pensiero di Pio XII : “ In questo caso infatti è chiaro che la morte (come eventuale conseguenza dell’uso di analgesici narcotici, ndr) non è voluta o ricercata in alcun modo, benché se ne corra il rischio per una ragionevole causa: si intende semplicemente lenire il dolore in maniera efficace, usando a questo scopo quegli analgesici di cui la medicina dispone”.

Anche Papa Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica “EVANGELIUM VITAE” chiarisce ulteriormente il pensiero della Chiesa (12). Il capitolo 65 così recita:

Per un corretto giudizio morale sull’eutanasia occorre innanzitutto correttamente definirla. Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. “L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati”. Da essa va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto “accanimento terapeutico”, ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato…La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte”.

Il possibile equivoco è tutto qui: non si deve togliere la vita per togliere il dolore e la sofferenza!

Il nostro scopo deve essere togliere il dolore e la sofferenza anche se ciò potrebbe comportare un eventuale abbreviamento della vita. A nostro modo di vedere l’idea semplicistica e brutale di togliere la vita per togliere il dolore e la sofferenza è una falsa soluzione del problema. Ci sono molte possibilità che vanno dalla terapia del dolore alle cure palliative che sono in grado di togliere il dolore e di attenuare la sofferenza. Quanto poi all’idea che la terapia del dolore, attuabile sia con tecniche di blocco delle vie sensitive, sia con la somministrazione di narcotici, possa abbreviare la vita, non è esatta: sono il dolore e la sofferenza che abbreviano la vita innescando meccanismi fisiopatologici che accelerano la morte; il paziente in trattamento con la terapia del dolore e/o con le cure palliative, sollevato dal dolore e dalle sofferenze può anche vivere più a lungo, con una qualità di vita accettabile. In ogni modo dobbiamo prendere atto che l’eutanasia sta bussando alle porte della nostra civiltà. Essa è una delle tante forme di aggressione alla persona umana, assieme alle manipolazioni genetiche, alla psicochirurgia modificativa della personalità, alla espropriazione della paternità con l’inseminazione artificiale extramatrimoniale, alla locazione, all’affitto della donna ad esclusivi fini riproduttivi, alla commercializzazione del neonato, al prelievo coatto di organi da prigionieri, per non parlare delle possibilità di riproduzione clonata di uomini in serie, della ibridazione uomo-animale. Una tale incompleta elencazione, che suscita un senso di vertigine e di repulsione, basta per richiamare l’attenzione sul fatto che oggi l’uomo si trova di fronte ad una scelta di fondo che definiremmo sapienziale: tra il restare cioè saldamente ancorato al valore della persona umana oppure cedere alla suggestione di tanti ambigui e discutibili progressi sotto la spinta, anzi l’abbaglio di un utilitarismo, scivolando sulla china del quale si può giungere al dissolvimento della stessa idea di uomo. È in un minore utilitarismo egoistico e in una maggiore qualità di vita dell’ammalato fino al momento terminale e nella riscoperta della realtà misteriosa della morte che sta la vera risposta alla fuorviante ideologia dell’eutanasia.

Bibliografia

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  10. L. Gedda: Atti del Simposio “Anestesia e Persona Umana”; collana “Analecta Genetica”.
  11. Pio XII: “Discorsi ai Medici” Ed: Orizzonte Medico 1959
  12. Giovanni Paolo II: EVANGELIUM VITAE, Capitolo III (65) 25 Marzo 1995