Pareri a confronto

Baby gang e bullismo: analisi di due degenerazioni psicologiche
di GIAN PIERO SBARAGLIA

Questi due fenomeni, espressione di una degenerazione comportamentale nel sociale, se non si collocano in uno dei capitoli della “patologia psicologica” del nostro essere uomini o nel capitolo della “patologia dei rapporti tra gli stessi esseri umani,” non troveranno mai la giusta soluzione.

Infatti se, come sempre capita, ci si mette a discutere circa le forme caratteriali degli individui che erogano violenza gratuita e senza prezzo, ad onta delle semplici linee guida della convivenza, cercando così di – non dico giustificare – ma attenuare la responsabilità della persona violenta, noi vedremo sempre queste circostanze ripetersi di volta in volta, senza freno né inibizioni; tanto gli esperti hanno detto che “l’individuo ha commesso la violenza non in stato di coscienza”. Ma resta il fatto che l’ha commessa e la vittima ne ha sofferto!

Occorre essere più realistici di fronte a questi fatti e la medicina deve farsi carico di affiancare costoro che a tutti gli effetti sono “dei malati” e vanno curati o comunque separati dalla società normale, laddove mostrassero un improbabile netto recupero. Ma la storia ci dimostra che l’individuo “così malato”, nella maggior parte dei casi è un “Recidivo”, pronto a ripetere lo stesso crimine. E questo – e sono meravigliato che fior fiore di psicologi o esperti nel settore non lo mettano in evidenza dando le opportune soluzioni risolutive – è una dimostrazione chiara ed inconfutabile che, se il soggetto è recidivo e tende a ripetere lo stesso crimine, anche dopo essere stato punito con la reclusione o con gli arresti domiciliari, qualcosa non funzione in queste soluzioni.

E allora?  Di certo vanno ricercati e sperimentati metodi più risolutivi, più efficaci, metodi che diano una garanzia di recupero vero, credibile, sicuro. Uno di questi è stato proposto in una conferenza dall’attuale ministro della Pubblica Istruzione, Valditara, il 24 novembre scorso, quando ha affermato che i “bulli” debbono provare il sentimento dell’“umiliazione” e debbono essere inviati in centri di recupero per “farli lavorare”, se non vogliono studiare. Il ministro poi si rifaceva alle gesta di quella baby gang che ha costretto un poveraccio a gettarsi in un cassonetto e dopo aver bullizzato il malcapitato, hanno buttato per terra il cassonetto divertiti, riprendendo con i telefonini tutta la scena per poi postarla sui social. Per giunta si trattava di bulli già avvezzi a queste cose.

Siamo onesti, se l’esperienza fino ad oggi ci ha portato a costatare che i metodi usati per le varie correzioni di questi “scalmanati” hanno fallito e falliscono in continuazione, ammettiamolo: ci debbono di certo far capire che c’è qualcosa che non va in essi, per cui vanno rivisti in maniera critica e con una buona dose di umiltà, abbandonando il protagonismo del “io dico che in questi casi si fa così non esiste altra soluzione”. Bando alle chiacchiere! La si trovi l’altra soluzione, se fino ad ora quelle proposte ed adottate, spesso con molta enfasi da personaggi che si definiscono “esperti nello studio dei comportamenti”, non hanno sortito l’effetto sperato!

Proviamo a studiare con umiltà e senza nulla rubare o togliere a chi fa certi specifici mestieri, ciò che accade ed i comportamenti anomali, magari più frequenti, tra i minori, ma anche tra gli adulti, spesso loro genitori o educatori.

Innanzitutto dobbiamo renderci conto che esistono fin da giovanissime età, “elementi” che da subito dimostrano delle devianze caratteriali che li portano come conseguenza ad agire per il male; secondo poi bisogna entrare con determinazione e serietà nella mentalità di costoro, quasi immedesimandosi in loro, vivendo gli stessi sentimenti, se non rubandone le idee, entrando di peso nel loro empireo; in una frase: diventare “loro stessi”.

E chi è la persona più adeguata se non il genitore, che dovrebbe in tutto e per tutto “entrare” nel figlio, per capirne i moti dell’animo e correggerli, laddove possibile? In questi casi, dunque la famiglia è il luogo dove padre e madre avrebbero dovuto studiare attentamente questi fenomeni dei loro figli e segnalarli subito (se non capaci loro stessi di risolverli) ai servizi competenti per un vero aiuto.

Purtroppo, – ammettiamolo- la famiglia oggi è composta da padre e madre che in ossequio alla parità dei diritti-doveri, si riuniscono con i figli quando ci sono, solo la sera e dopo una giornata di lavoro: la sola cena, in moltissimi casi, costituisce l’unico momento di aggregazione e quindi di colloquio; poi la televisione ed il letto per dormire. Dove sta in questo contesto il dialogo con i figli, o meglio, la possibilità di rendersi conto da parte dei genitori delle problematiche dei loro figli? E allora come pretendere di porvi rimedio, se un genitore si accorge delle devianze del proprio figlio minore solo perché chiamato a scuola dal preside per un anomalo comportamento? E magari consente che il minore stia a lungo fuori casa, rientrando a tarda notte o alle prime luci del giorno seguente per stare con gli amici o per chissà quale altra circostanza, forse impropria?

Noi crediamo che il viver civile da sempre è stato oggetto di discussioni o di comportamenti positivi o negativi, la storia ce lo insegna. Ma la stessa storia ci insegna anche come trovare soluzioni: e qui crediamo che oggi sia ubicato il punto debole: non c’è un’adeguata formazione-cultura, non vogliamo pensare che manchi la volontà per affrontare seriamente il problema e trovare una soluzione adeguata.

Ai posteri l’ardua sentenza!

Riflessione del Dott. Gian Piero Sbaraglia
MEDICO CHIRURGO
Spec. In Otorinolaringoiatria
già Primario Otorinolaringoiatra,
C.T.U. del Tribunale Civ. e Pen. di Roma
Direttore Sanitario e Scientifico Centro di Formazione
BLSD-PBLSD – Accreditato ARES 118-Lazio e IRC,
Misericordia di Roma Centro – ROMA.