Cultura è Salute

“Fogli del calendario di ieri”: una gastroenterologa con la passione per la scrittura
di STEFANIA BARONI

15 Settembre 2023

Sono medico da così tanti anni che ormai faccio fatica a dare di me un’altra versione! E la gastroenterologia, appresa in uno dei migliori centri ospedalieri milanesi, è il mio pane quotidiano. Dopo lunghi anni in corsia o in endoscopia, nel 2021 ho scelto la libera professione, che mi consente di dedicare al paziente tutto il tempo necessario senza lo stress di tempi imposti e la possibilità vera di un aggiornamento continuo, senza limiti derivanti dai turni di guardia o dalla cronica carenza di personale.
E finalmente meno oppressa, ho potuto guardare indietro, rivedermi tra i banchi del liceo classico e rivivere la difficoltà della scelta universitaria, inizialmente orientata alle lettere moderne. E da qui con un piacere da sempre represso ho dato libero sfogo alla mia passione per la scrittura, da anni contenuta tra le mura domestiche e rivelata solo in occasione di eventi davvero speciali.

Il mio libro

L’uomo che vediamo oggi nasconde il bambino di ieri, ben camuffato da un corpo che ha acquisito fattezze sempre più lontane dall’originale. L’occhio disattento non lo riconosce più perché la spontaneità e l’immediatezza hanno ceduto il passo alla finzione, alla ricerca di uno stile, a trucchi vari con i quali si decide di proporsi agli altri.
Ma nulla è paragonabile alla bellezza intatta di un’infanzia felice, nella quale la vita è uno splendido gioco nato dal nulla, rinnovato ogni giorno, bisognoso solo di qualche compagno d’avventura, di amici fidati che senti fedeli per sempre; ogni promessa è cosa certa, le ore scorrono limpide, nessuna nuvola all’orizzonte; l’amore ci avvolge a piene mani e la tenerezza scalda e rinsalda la mente, che accoglie ogni proposta con rinnovato stupore.
Nelle ore non sempre facili della mia professione ho provato a volte la necessità del silenzio, dell’allontanamento da un’esteriorità che disturba, dai commenti degli amici e dei meno amici, da chi in buona fede vuole sostenerti, ma non lo può fare perché non riesce a condividere dubbi e paure. E allora ecco il bisogno di piegarmi su me stessa, per cercare alla fonte una forza interiore priva di orpelli, pulita, cresciuta con me nel fluire degli anni, in grado di sussurrare il rimedio e di dare vigore a un coraggio sbiadito.
Scrivendo nel silenzio del mio studio, con il fine unico di liberare una mente provata e affaticata ma sempre ottimista e fondamentalmente allegra, sono emerse via via immagini della mia infanzia, senz’altro felice perché mai turbata da eventi irripetibili.
La famiglia imprimeva forza con il suo amore costante e gratuito e il mondo esterno, sempre più ricco e diversificato, allargava la visuale e suggeriva nuovi desideri, nuovi sogni, progetti anche grandiosi e mai censurati da limiti ansiosi.

Ne è nato un simpatico affresco della vita di una bambina degli anni 60, cresciuta nella vivace periferia milanese, in un paese che non hai mai perso la sua identità. Amante di una vita contadina in piena evoluzione industriale, ho sempre sentito “sulla pelle” il cambio delle stagioni annunciato dal lavoro agricolo, che scandiva con precisione lo scorrere dei giorni: dalla primavera all’estate, dall’autunno all’inverno, ogni fase aveva i suoi segreti e nessun momento era “morto” o di riposo ma preparatorio al successivo.
La natura era veramente al centro, dettava ogni anno la sua legge da tutti rispettata perché da lei derivava sostentamento e tranquillità per sé stessi e per le famiglie.
Ma il lavoro non era sempre protagonista: la festa degli alberi, la festa del raccolto, la festa dell’uva sancivano il successo di un lavoro gravoso e tutti erano chiamati a condividere la gioia. Mai soli, sempre in gruppo, sempre invitati anche se non avevi fatto nulla ma eri parte di una comunità che non ti lasciava mai in un angolo.

“Certo i pomeriggi estivi erano del tutto diversi da quelli invernali! In estate la combriccola si trovava subito dopo pranzo e il tempo volava fino a raggiungere le 19.30, orario imprescindibile per la ritirata. Quindi, salvo in caso di temporale, rapida cena e di nuovo in cortile, dove la nostra gioia urlante avrebbe rovinato i programmi TV sino a completa comparsa dell’Orsa maggiore, della minore e anche della Stella Polare insieme alla via Lattea. A quel punto, incursioni nelle case degli amici per la buona notte.
Di quel periodo ricordo l’atmosfera e i profumi, ciascuno in grado di evocare situazioni speciali. La convivenza con gli animali, la presenza di una nonna dedita alla casa (cera sui pavimenti e candeggina ovunque), il confezionamento della salsa di pomodoro, che ribolliva per ore ed ore in pentoloni che comparivano solo tra agosto e settembre. E tutti mangiavamo a 4 palmenti sott’olio e sott’aceto e mai nessuno, se la memoria non m’ inganna, si è fatto prendere in contropiede dal botulismo.  Eravamo più forti anche del Clostridium”.