Medico-Paziente

Dedicato a chi lavora ogni giorno vicino ad un malato

10 Ottobre 2024

La vita, come sommatoria di attimi positivi o negativi, è certamente diversa per ogni individuo. Anche se certune situazioni possono apparire comuni, esse invece sono simili e mai perfettamente uguali. Da ciò derivano la diversa ansia, la diversa tensione, i diversi atteggiamenti, le diverse risposte che ciascun individuo, che si trovi a vivere certe contingenze, fornisce a chi lo circonda o lo avvicini. E non sempre le risposte ad uno stimolo comune o ad una comune sollecitazione sono uguali: c’è chi alla gioia o al dolore risponde con vivacità o rabbia, chi invece non risponde per nulla e non batte ciglio. E ciò per la particolare sensibilità e cultura dell’individuo toccato, il quale per questo – meno male che è così – si diversifica dal resto dei suoi simili, obbedendo alla legge della unicità assoluta dell’essere umano.

Ecco dunque giustificato il pluralismo caratteriale degli individui, che tanto sollecita a scrivere psicologi e sociologi. Ma un fatto è certo, al di là di ogni dissertazione aulica: ogni uomo è un mondo a sé, originale e unico, e contiene sempre un “quid” che lo differenzia dagli altri. Detto questo, sembrerebbe difficile il rapporto umano, ma così non è. Le premesse fatte vengano considerate come “pensées” di quanto difficile sia stilare una classificazione dei caratteri e quanto arduo sia comunicare, ma non impossibile.                                                       

Ecco allora il punto. Di fronte alla poliedricità dei caratteri, comunicare in qualunque modo appare un mezzo per arrivare a tutti, e se non alla comprensione totale, almeno in buona approssimazione avvicinarsi ad essa, pur nella molteplicità delle idee e dei modi di agire. Comunicare è dialogare, è negoziare, è esprimere, è giudicare: in una parola è parlare. E parlare significa stabilire un contatto con il simile che, se approfondito, può essere completo e totale: in una parola vuol dire capire l’altro, comprenderne le emozioni, i comportamenti, partecipando alle gioie e ai dolori. Vuol dire realizzare il concetto della conoscenza di prossimità; vuol dire aiutarlo e non isolarlo; vuol dire condividere con lui la gioia, lenire i suoi dolori, penetrando nel mistero della comunicabilità tra uomini disposti a parlarsi. E tutto questo è facilmente verificabile nelle corsie degli ospedali, dove gente d’ogni ceto, d’ogni estrazione, che soffre per le malattie e l’autosufficienza perduta, non aspetta altro che “comunicare”, parlare per essere capita, aiutata, anche con un gesto, un sorriso, una battuta.

L’operatore sanitario, dal medico al paramedico, edotto sulle premesse sopra dette, non può non conoscere l’uomo per stabilire un contatto tendente al nobile fine della guarigione. È quel contatto che, per chi crede, si chiama “Carità”, per chi è agnostico si chiama altruismo o amore di prossimità. Comunque definito questo sentimento, se esercitato e ben capito, costituisce il “carburante” per la comprensione reciproca fra gli esseri, pure se diversi; costituisce l’elemento basilare per il colloquio e per la comprensione, un valido aiuto non tanto per la soluzione delle sofferenze, quanto per la loro accettazione e sopportazione. Perciò, la disponibilità incondizionata rivelata presente nel personale sanitario dal paziente ricoverato, dà a lui energia per aiutarsi a guarire, gli dà ottimismo per l’esito della sofferenza, perché si sente d’essere attenzionato, avvertendo di essere stato preso in carico per la terapia finalizzata alla guarigione, dopo la verifica e lo studio del suo stato di salute, della patologia che lo ha costretto al ricovero. Quanta importanza riveste in questi frangenti il colloquio col malato da parte del personale sanitario, specie se medico! È l’aspetto che nobilita l’anamnesi, che va oltre il semplice racconto della storia di come sia incappato nello stato di malattia. È il porgersi al fianco del sofferente per fargli capire, sia con il colloquio, sia con la sola vicinanza, che la sua esperienza, seppur negativa a causa del male, è condivisa e vissuta con lo scopo nobile della sua guarigione. È questa la nobile proprietà di chi indossa un camice bianco, nel rispetto assoluto dell’Ippocratico giuramento: tutto questo al di fuori di ogni paternalismo retorico e vecchio, di certo sarebbe la panacea per i violenti aggressori, verso chi lavora, anche per loro nelle corsie, ma soprattutto sarebbe l’assenza dello stimolo alla cattiveria, alla violenza, che non avrebbe energia per accendersi.

Dr. Gian Piero Sbaraglia,
già Primario di Otorinolaringoiatria,
Consulente Tecnico d’Ufficio Tribunale di Roma,
Direttore Sanitario e Scientifico
Centro di Formazione BLS-D, PBLSD, accreditato ARES-118 e IRC,
Misericordia di Roma Centro