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Vaccino Pfizer, richiamo posticipato:
una scelta a tutela della popolazione
di PATRIZIA LAVIA e BARBARA ILLI

14 Maggio 2021

Le due ricercatrici dell’Istituto di Biologia e Patologia Molecolari del CNR, Roma, commentano la decisione di introdurre un intervallo di 5 settimane tra la prima e la seconda dose dei vaccini a RNA (Pfizer e Moderna), a partire dal prossimo 17 Maggio. Una scelta che non poteva non suscitare reazioni e commenti: dalla sorpresa, alla delusione di vedere ritardata la conclusione della vaccinazione completa, allo sconcerto di dover riprogrammare, in alcuni casi, Impegni già pianificati, ai dubbi più vari sull’introduzione di un improvviso cambiamento.

Per affrontare questa questione e le relative domande sono utili 3 documenti fondamentali:

Le ragioni per allungare l’intervallo tra le dosi

Non è un mistero che il mondo sta sperimentando la difficoltà di produzione dei vaccini in misura sufficiente per tutti. In particolare, mancano dosi di Astra Zeneca sulle quali contavamo, sia perché la comunicazione sulla sicurezza del vaccino è stata pessima all’esplosione dei rarissimi casi avversi (v. anche il nostro articolo del 22 marzo scorso), sia perché si sta verificando una imperdonabile difficoltà di distribuzione e quindi di approvvigionamento di questo vaccino.

Si deve quindi prendere atto che non sono disponibili le dosi di vaccino di cui avremmo bisogno per poter vaccinare tutti secondo il protocollo originale approvato da EMA e FDA, che prevede 3 settimane di intervallo tra le dosi per Pfizer e 4 per Moderna. In queste circostanze, diversi paesi Europei tra cui Francia e Germania, si sono attrezzati per allungare l’intervallo tra le due dosi di vaccino a 5 settimane. Anche l’Italia si sta preparando al protocollo con intervallo di 5 settimane, a partire dal 17 maggio.

Pfizer ha reagito sottolineando che il protocollo da loro messo a punto prevede un intervallo di 21 giorni, e per ovvie ragioni la casa produttrice non può fare altrimenti.  Tuttavia, il Regno Unito, che si è trovato per primo a fronteggiare la comparsa di una variante a trasmissione molto veloce, ha dimostrato che la strategia di vaccinare il maggior numero possibile di cittadini almeno una volta velocizza l’immunità di popolazione.  Dobbiamo saper leggere l’esperienza di paesi come appunto il Regno Unito, che, a dispetto di un’apparente spregiudicatezza nell’adattamento dei protocolli, sono riusciti ad abbattere il contagio proprio grazie alla loro capacità di domare, in modo empirico, circostanze molto difficili.

Ci troviamo in mancanza di dosi sufficienti per seguire il programma originario.  Abbiamo dunque due sole opzioni per proteggere la popolazione in tempi accettabili:

  • allungare l’intervallo tra la somministrazione delle dosi e vaccinare più persone almeno con la prima dose;
  • vaccinare una frazione della popolazione completamente, con 2 dosi somministrate con l’intervallo canonico di 21 giorni, ma continuare ad avere fasce di popolazione in circolazione niente affatto vaccinate che continuano a essere potenziali fonti di contagio.

Il Regno Unito ha dimostrato che per abbattere la curva del contagio con velocità occorre vaccinare il maggior numero di persone possibile nel più breve tempo.  Questa dimostrazione ha portato Francia, Germania e ora Italia verso l’opzione a).

L’efficacia della protezione individuale non cambierà ritardando il richiamo

Nello stimare l’efficacia della protezione offerta dai vaccini anti-covid, bisogna considerare un livello individuale e uno popolazionistico.

Al livello della popolazione, la protezione data dal vaccino si calcola misurando la probabilità che un individuo pur vaccinato, venendo a contatto col virus, possa infettarsi ed a sua volta infettare altri, o al contrario fermi la trasmissione. Questa stima è difficile da calcolare in modo assoluto per diversi motivi. Intanto, l’immunità non si acquisisce immediatamente, ma compare in un arco di tempo, variabile tra individui, che va da 7 a 14 giorni dalla prima dose: quindi, la stima della protezione dal contagio risente del momento in cui si vanno a contare gli infettati post-vaccino. Molto utili a questo proposito sono i dati raccolti in Israele nei primi 4 mesi della campagna vaccinale: questi dati mostrano che nei primi 7 giorni dopo la prima vaccinazione ci si può reinfettare, perché in quel periodo si stanno producendo anticorpi ma la risposta non è ancora stabile.

Una volta che la risposta immunitaria è stabilizzata, è possibile stimare quale protezione dal contagio essa conferisca alla popolazione; le stime si basano tuttavia su modelli che si riferiscono ad una situazione “astratta”, in cui tutte le persone sono vaccinate con 1 dose e tutte hanno una risposta immunitaria standard, condizioni un po’ lontane dalla realtà. Ad ogni modo, in UK e Israele, dove le campagne di vaccinazione sono state compatte, andando da zero vaccinati all’intera popolazione vaccinata in pochi mesi, è stato possibile ricavare stime che si aggirano intorno al 60% di protezione dopo la prima dose. In Italia la stima è più complicata, perchè i trend di vaccinazione sono localmente diversi nel paese e più diluiti nel tempo, quindi è difficile dare un valore unico. I dati dell’Istituto Superiore di Sanità indicano comunque che, anche in Italia, la prima dose abbia già un effetto protettivo al livello della popolazione, riducendo la trasmissione di circa il 60%.

Questi dati sarebbero confortati da un primo rapporto sulla protezione dal contagio da parte del vaccino Pfizer, pubblicato sulla rivista Nature Medicine. Pur specificando che si tratta di uno studio osservazionale e non di un vero e proprio trial clinico, gli autori riportano un abbattimento consistente della possibilità di trasmettere il virus in caso di contagio dopo aver ricevuto la prima dose di vaccino, a partire da 12 giorni dopo l’inoculazione. Attenendoci a criteri scientifici, questa ci sembra la dimostrazione migliore, peraltro pubblicata, che una sola inoculazione di vaccino abbia già un impatto importante a livello di popolazione.  

Al livello individuale, il vaccino Pfizer conferisce una protezione dell’80% dalla malattia già a partire da 12-14 giorni dopo la prima dose dose: in altre parole, anche se ci si re-infetta, l’individuo vaccinato ha l’80% di probabilità di non sviluppare patologie e soprattutto di non incorrere in esiti fatali. Questa protezione raggiunge il 95% dopo la 2° dose, e l’efficacia non cambia se il richiamo si fa a 3 o a 5 settimane, come dimostrano i dati del Regno Unito.

L’allungamento dell’intervallo e le varianti

È stata sollevata qualche preoccupazione che allungare l’intervallo tra le dosi potrebbe lasciare più tempo ad eventuali nuove varianti di diffondersi. Questo è un punto teorico importante. Un vulnus dell’Italia è che noi tipizziamo poco la diffusione delle varianti. Su questo punto ha sempre insistito il Prof. Andrea Crisanti (Università di Padova), ma questo non viene ancora fatto abbastanza. Dai dati disponibili oggi, sappiamo che prevale in Italia la variante inglese, che è riconosciuta da tutti i vaccini, i quali, da questo punto di vista, sono tutti ugualmente efficaci. In questa situazione, lo spostamento della seconda dose a 5 settimane non dovrebbe produrre effetti particolarmente notevoli. Tuttavia, è necessario vaccinarci tutti, prima possibile, per evitare che emergano ulteriori varianti che potrebbero sfuggire alla risposta immunitaria indotta dai vaccini attualmente in uso.

Una considerazione sull’EMA

Proprio ieri 12 Maggio l’EMA ha approvato l’allungamento dell’intervallo tra le due dosi del vaccino Pfizer. Potrebbe sembrare ad alcuni che a questo punto l’EMA segua la politica logistica dei governi, più che dare loro direttive.

A tal proposito ci sono 2 considerazione da fare.

La prima: come riportato sopra, ci troviamo nella situazione di non avere sufficiente approvvigionamento di vaccini e, aggiungiamo, nella condizione di vedere migliaia di dosi di vaccino Astra Zeneca ancora nei frigoriferi e per la diffidenza della popolazione e per il cambio delle fasce d’età a cui è destinato. E’ questa una situazione emergenziale, nella quale la stessa EUA (Emergency Use Authorization) che è stata concessa a questi vaccini tollera deviazioni dall’iter “blindato” che seguono gli altri farmaci.

La seconda e più importante considerazione: come ha spiegato il Dott. Marco Cavaleri, responsabile della strategia vaccini dell’EMA, il dossier pervenuto all’EMA sul vaccino Pfizer prevede una finestra di somministrazione della seconda dose compresa tra 21 e 42 giorni, benché i dati più consolidati siano nell’intervallo di 3 settimane.

Pertanto, la decisione dell’EMA non deve essere vista come l’avallo ad una “sperimentazione sul campo” ma come una decisione supportata da dati, ragionevole nella situazione data.  

Le riaperture

Un aspetto critico nella decisione di allungare l’intervallo è quello di farlo mentre, contemporaneamente, si diminuiscono le restrizioni. L’esperienza del Regno Unito e di Israele suggeriscono che, allungando l’intervallo, bisognerebbe far in modo che le persone circolassero meno, si incontrassero meno, meno zone gialle, meno riaperture. Ma questo appare molto difficile per una serie di ragioni soprattutto di natura economica e anche organizzativa.  Le persone sono compresse e insofferenti dopo molti mesi di restrizioni.  Continuare con le restrizioni sarebbe insostenibile, più per un problema di ordine sociale che di immunologia.

In conclusione, l’efficacia del vaccino non cambia ritardando la seconda dose; non si corre nessun maggiore rischio individuale, ma bisogna considerare l’intervallo allungato come un tempo nel quale rimanere molto prudenti.

Il livello di sicurezza dei vaccini a RNA, pur con protocollo diverso da quello originariamente approvato da FDA e EMA, è ormai validato su decine di milioni di persone nel mondo, e rimane davvero molto alto.