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Nuovo Coronavirus: lezioni per il futuro
Cosa abbiamo imparato per affrontare quello che verrà
di BARBARA ILLI e PATRIZIA LAVIA

5 Ottobre 2021

“Qualche Cassandra bene informata parla addirittura del Next Big One, il prossimo grande evento, come di un fatto inevitabile. Sarà causato da un virus? Si manifesterà nella foresta pluviale o in un mercato cittadino della Cina meridionale? Farà trenta, quaranta milioni di vittime? L’ipotesi è oramai così radicata che potremmo dedicarle una sigla: NBO.”
(David Quammen, Spillover, 2012)

Nel corso dell’ultimo anno, abbiamo imparato molte cose e sul virus SARS-COV-2 e sulla malattia Covid-19. In questo articolo riassumiamo le attuali conoscenze che devono servirci per affrontare il futuro. Non sappiamo, ancora, quali ulteriori evoluzioni potranno esserci e cerchiamo di enucleare alcuni punti importanti per prevenire, nei limiti del possibile, ulteriori eventi come quello che ha colpito il mondo intero alla fine del 2019.

Eradicazione o endemizzazione?

Ormai lo sappiamo: l’eradicazione del SARS-CoV-2 è probabilmente impossibile. Le ragioni sono molteplici e val la pena ricordarle.

La prima risiede nella natura di questo virus, che muta molto velocemente.

Le altre, come osservato in un articolo pubblicato su Nature lo scorso marzo sono la reticenza a vaccinarsi, i dubbi sulla vaccinazione nei bambini,  e l’inaccessibilità dei vaccini in molti paesi, insieme a problemi strutturali relativi alla sanità dei Paesi più poveri.  Analizziamole una per una.

Le varianti

SARS-CoV-2 è un virus a RNA. I virus a RNA, contrariamente a quelli a DNA mutano molto velocemente. Nel box 1 esaminiamo le ragioni evolutive della loro alta mutabilità. È nella natura evolutiva dei virus introdurre mutazioni causali nel proprio genoma. Quelle che aumentano la fitness virale, cioè che conferiscono una maggior velocità di contagio o che cambiano conformazione, sfuggendo al sistema immunitario, vengono “fissate” e si propagano nella popolazione soppiantando le precedenti. 

VIRUS E EVOLUZIONE

Perché i virus a RNA mutano tanto più rapidamente rispetto ai virus a DNA? La risposta è nella natura dell’enzima che replica l’una e l’altra tipologia virale.

La DNA polimerasi, l’enzima che duplica il genoma dei virus a DNA (oltre che il nostro) ha una capacità definita di “correttore di bozze”. Come sappiamo, l’informazione genetica è organizzata in sequenze composte da 4 lettere, A-T-G-C (adenina, timina, guanina, citosina: le basi azotate), ordinate in vario modo (ogni gene ha una sua sequenza specifica).

Nella doppia elica del DNA, per ragioni di energia chimica, A può appaiarsi solo con T e G con C. A volte però la DNA polimerasi “sbaglia” questi appaiamenti, generando una mutazione. Tuttavia, diversi meccanismi di sorveglianza operano nelle nostre cellule per rilevare l’errore e permettere alla stessa DNA polimerasi di correggerlo: infatti, la base sbagliata viene “tolta” e sostituita da quella giusta. Questo meccanismo mantiene basso il tasso di mutazione nel DNA, sia nel nostro genoma che nel genoma dei virus a DNA, ed è indispensabile per garantire la stabilità della doppia elica del DNA. Questa è la ragione per cui i virus a DNA mutano molto poco.

I virus a RNA (le cui lettere sono A-U-G-C: la timina è sostituita dall’uracile) hanno invece un genoma a singolo filamento. Questi virus utilizzano due vie principali per replicarsi.

Una categoria, che comprende l’HIV, il virus dell’AIDS, utilizza la trascrittasi inversa, un enzima che replica il virus passando per delle forme intermedie a DNA, alle quali, quindi, si applica il meccanismo descritto sopra. Per questo, l’AIDS si cura da decenni con farmaci antiretrovirali, che inattivano la trascrittasi inversa.

Altri virus a RNA, come quelli della famiglia dei coronavirus, utilizzano un altro enzima, l’RNA polimerasi, che produce direttamente nuove copie del genoma a RNA partendo da RNA.

L’RNA polimerasi è sprovvista di attività di auto-correzione. Pertanto, non è in grado di rimuovere un appaiamento sbagliato. Ma questo, per un virus a RNA, è poco importante: l’RNA è un filamento singolo, non una struttura complessa come la doppia elica del DNA. Inoltre, i virus a RNA hanno un genoma abbastanza piccolo, al massimo di 30000 coppie di basi come il SARS-CoV-2: gli errori possono essere sostenuti facilmente poiché i geni necessari per la formazione dei virioni sono pochi.
Le dimensioni del genoma di un virus a DNA sono 10 volte superiori. Per queste ragioni i virus a RNA generano frequentemente varianti.

Cosa abbiamo appreso a questo punto sulle varianti di Sars-Cov-2?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha identificato 3 classi di varianti (discusse in un nostro precedente articolo https://www.lavocedeimedici.it/2021/07/28/la-variante-delta-e-le-proteste-la-scienza-deve-prendere-posizione-di-barbara-illi-e-patrizia-lavia/):

  • varianti preoccupanti, variants of concern (VoC)
  • varianti di interesse, variants of interest (VoI)
  • altre varianti.

Rispetto al ceppo originario, sono oggi 4 le varianti preoccupanti, 5 le varianti di interesse e almeno altre 13 le varianti che al momento non destano preoccupazione.  Ne riportiamo qui le caratteristiche esssenziali:

Le varianti preoccupanti, VoC, sono classificate come tali quando soddisfano almeno 1 di 3 condizioni:

  • Aumento della trasmissibilità
  • Aumento della virulenza del ceppo mutato, o cambiamento clinico della malattia;
  • Diminuzione dell’efficacia della sanità pubblica, o dei mezzi diagnostici, o dei vaccini, delle terapie.

Le varianti di interesse, VoI, sono quelle che causano:

  • cambiamenti genetici di cui è dimostrata, o si può prevedere, la capacità di influenzare la trasmissibilità del virus, o la gravità della malattia, o l’evasione dalla risposta immunitaria, o il rimanere occulta alla capacità diagnostica
  • una significativa trasmissione nella comunità di riferimento, o più cluster COVID-19, in più paesi con crescente prevalenza relativa ad altri ceppi, o altri effetti epidemiologici che suggeriscono un rischio emergente.

La tabella riassume le varianti ad oggi classificate nelle categorie di preoccupazione e di interesse.

Denominazione WHOCeppi viraliPaese di comparsaData di comparsa
Varianti preoccupanti   
Alfa B.1.1.7 Regno Unito  Settembre 2020 
Beta B.1.351 Sud Africa  Maggio 2020 
B.1.351.2
B.1.351.3
Gamma P.1 Brasile Novembre 2020 
P.1.1
P.1.2
Delta B.1.617.2India  Dicembre 2020 
AY.1
AY.2
AY.3
Varianti di interesse   
Eta B.1.525 Diversi paesiDicembre 2020 
Iota B.1.526  USANovembre 2020 
Kappa B.1.617.1 IndiaOttobre 2020  
LambdaC.37PeruDicembre 2020 
MuB1.621ColombiaGennaio 2021

Delta

La variante delta è oramai la prevalente a livello mondiale.

Ricordiamo che il ceppo originario del virus poteva infettare circa 2.5 persone mentre, mentre nelle stesse condizioni, Delta ne può infettare 4. Questa maggiore capacità infettiva dipende da cambiamenti a carico della proteina Spike, che aumentano la capacità del virus di fondersi alle cellule.

Inoltre, Delta sembra essere riconosciuta da 3 a 5 volte di meno dagli anticorpi neutralizzanti sia nei soggetti ex-Covid che nei vaccinati ed è quindi, in una certa misura, immunoevasiva. Quest’ultimo dato ci dice quindi una cosa importante, e cioè che le varianti si generano indipendentemente dai vaccini. È nella natura dei virus cercare di sfuggire al nostro sistema immunitario, vaccini o meno. Tuttavia, il nostro sistema immunitario evolve insieme al virus: un bellissimo lavoro pubblicato su Nature dimostra che i nostri linfociti B della memoria immunitaria, grazie ad un fenomeno chiamato ipermutazione somatica, evolvono il loro repertorio di anticorpi di pari passo con le mutazioni del virus. 

Mu

Oggi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha gli occhi puntati sulla variante Mu.  Questa variante, originata in Colombia, è molto simile nel tipo di mutazioni alla beta ma sembra anche avere maggiori capacità immunoevasive, almeno a livello predittivo. Non ci sono ancora dati di laboratorio che confermino questa ipotesi. Attualmente, rappresenta lo 0.1% delle infezioni ed è pertanto classificata come “di interesse”.

Varianti e vaccini

Da quanto detto finora, non solo non è assolutamente vero che i vaccini rappresentino un “ambiente favorevole” allo sviluppo di varianti ma, al contrario, sono i non vaccinati che rappresentano, caso mai, “serbatoi” permissivi per la replicazione del virus e quindi per la loro mutabilità, che, come abbiamo visto nel box 1, è un processo intrinseco alla loro replicazione.

La nuova nomenclatura per le varianti basata sull’alfabeto greco ha sostituito quella precedente che ne riportava il Paese di origine. Non possiamo non osservare, a partire dal loro stesso nome, che le varianti insorgono proprio laddove i tassi di vaccinazione erano/sono spaventosamente bassi. La figura 1 riporta I tassi di vaccinazione dei Paesi in cui sono insorte le varianti beta, gamma, delta e mu.  La alfa, quella inglese, come sappiamo ha avuto origine nel Regno Unito prima dell’inizio della campagna vaccinale e in assenza, allora, di misure di restrizione, poi implementate.

Da tutto quanto detto, emerge che potremo aspettarci nuove possibili varianti finchè nel mondo non sarà raggiunta una copertura vaccinale significativa.

Figura 1. Percentuale di individui vaccinati nelle nazioni in cui sono insorte le varianti preoccupanti del SARS-CoV-2.

Vaccini progettati contro varianti specifiche

Le varianti del virus rappresentano teoricamente un problema per chi ha ricevuto qualunque vaccino attualmente approvato. Eccezion fatta per la variante alfa, le altre eludono parzialmente in nostro sistema immunitario e richiederebbero il disegno di vaccini più specifici. Infatti, tutte le aziende farmaceutiche che hanno visto approvati i loro vaccini (Pfizer, Moderna, e Astra Zeneca, tranne Johnson&Johnson) hanno annunciato studi preclinici e clinici su vaccini progettati in maniera specifica contro la variante beta, delta e a copertura di varianti multiple (come Moderna).

Anche Astra Zeneca sta sperimentando un vaccino specifico contro la variante beta, verso cui il  vaccino originario è risultato inefficace. Ad oggi non ci sono ancora dati in proposito.

Un portavoce di Pfizer – che ha prodotto e sta sperimentando 2 nuovi vaccini,  contro la beta e contro la delta  () – ha riferito che il vaccino attualmente in uso  contro il ceppo originario di Wuhan è ancora fortemente protettivo contro la malattia grave e la morte anche in caso di infezione da varianti.

Finché i vaccini in uso si dimostreranno ancora efficaci, potrebbe non essere una buona strategia correre dietro alle varianti, come ha dichiarato il Dr. Redondo, virologo alla Northwestern University di Chicago. Questo perché ogni nuovo vaccino richiederebbe un trial clinico specifico, un nuovo iter di approvazione, innescando un processo senza fine. Per cui, finché non avremo la prova che effettivamente una variante non abbia aperto una seria breccia nel nostro sistema di difesa vaccinale, vaccini variante-specifici potrebbero non essere necessari. Nonostante questo, il fatto che le aziende farmaceutiche abbiano già pronti vaccini variante-specifici testimonia la grandissima versatilità di questi prodotti biologici e predice la rapidità con cui saremmo eventualmente in grado di rispondere nel caso una variante davvero pericolosa dovesse presentarsi.

2021, inizia l’anno zero: i vaccini, unica arma attualmente disponibile per contenere la malattia grave e la morte per COVID-19

L’inizio del 2020 segna uno spartiacque tra la vita come eravamo abituati a conoscerla e il futuro. Siamo nell’anno zero, perchè è chiaro che nulla sarà più come prima. E non perché non riavremo mai la nostra consueta, a volte tanto bistrattata, quasi noiosa ma ora agognata, normalità. Ma perché, malgrado gli enormi progressi tecnologici e scientifici che da due secoli permettono di curare molte malattie, salvare vite e allungare in modo sostanziale la nostra durata di vita, all’improvviso ci siamo traumaticamente ritrovati davanti all’esile confine tra sentirsi invulnerabili ed essere, invece, enormemente fragili.  

La fine del 2020 segna, altresì, un’enorme conquista per l’umanità: grazie ad uno sforzo economico e scientifico senza eguali 6 vaccini sono stati resi disponibili nell’arco di 10 mesi per trainarci fuori dalla pandemia. Tre – Pfizer/BioNTech, Moderna, e Johnson&Johnson – vengono approvati per uso emergenziale dalla Food and Drug Administration (FDA).  L’agenzia regolatoria europea (European Medical Agency, EMA) ne approva un quarto, di Astra Zeneca, sempre ad uso emergenziale.  Il 23 agosto scorso la FDA approva in via definitiva il vaccino Comirnaty di Pfizer/BioNTech. Ma i vaccini a quella data disponibili sono di più: si aggiungono, infatti, il russo Sputnik e il cinese Sinovac. Sebbene non abbiano ricevuto né richiesto l’approvazione dalle agenzie regolatorie europea o americana, essi sono largamente usati in varie regioni del globo.

Vogliamo ricordare, con buona pace di coloro che ancora definiscono sperimentali questi strumenti eccezionali di tutela della salute pubblica, che le metodiche con cui sono stati realizzati i vaccini attualmente autorizzati sono in uso da almeno un decennio per quanto riguarda i vaccini ad mRNA (Pfizer/BioNTech e Moderna) e da un trentennio per quelli a vettore adenovirale.  Non solo: per garantire la sicurezza e l’efficacia di questi vaccini sono stati utilizzati test molto più all’avanguardia di quelli usati per vaccini cosiddetti “classici” che ancora somministriamo in età pediatrica. Questo perché la ricerca di base e le biotecnologie sono state protagoniste di un’accelerazione eccezionale negli ultimi 20 anni.  

Uno sguardo agli altri paesi

Che i vaccini siano un’arma fondamentale per la lotta contro la pandemia di Covid-19 lo testimoniano i dati giunti dai Paesi dove le campagne di vaccinazione procedono spedite.

  • Regno Unito
    Dopo un periodo iniziale di rifiuto delle misure restrittive e di distanziamento, rifiuto poi rapidamente rientrato, il primo a partire con la campagna vaccinale è stato il Regno Unito l’8 dicembre 2020. Sono stati usati sia il vaccino Pfizer/BioNTech che Moderna (mRNA) e Astra Zeneca (il cui scheletro è un adenovirus di scimpanzè).
    Proprio il Regno Unito ci fornisce i dati per affermare che i vaccini funzionino nel fare da scudo contro la malattia grave e la morte (figura 2).  Se guardiamo ai dati del settembre ultimo scorso, a fronte di circa 40.000 nuovi casi diagnosticati, le morti – sempre tragiche – sono relativamente contenute. Nulla a che vedere con gli oltre 1.200 morti registrati giornalmente tra novembre e febbraio, con 500.000 contagi giornalieri. Questa discesa è parallela all’aumento del tasso di vaccinazione del Regno Unito che ha raggiunto il 71% della popolazione – tra prime e seconde dosi – nel momento in cui scriviamo.
A) Nuovi casi di Covid-19 giornalieri nel Regno Unito nel periodo marzo 2020-settembre 2021.
B) Numero di morti giornaliere per Covid-19 nel periodo marzo 2020-settembre 2021 nel Regno Unito.
C) Tasso di vaccinazione nel Regno Unito.
  • Israele
    A seguire, il 21 dicembre 2020 Israele dà l’avvio alla sua campagna vaccinale. Israele è un caso strumentalmente preso a paradigma dell’inefficacia dei vaccini anti-Covid-19 dalle correnti no vax o dagli scettici. Lo stato israeliano sta vivendo una violenta impennata di nuovi contagi a partire da agosto. Questo ha diverse ragioni:
    • l’immunità conferita dai vaccini in termini di anticorpi neutralizzanti circolanti diminuisce nel tempo
    • la circolazione della variante delta
    • la riapertura delle scuole, in agosto,  delle comunità Haredim, costituite da ebrei ortodossi che non accettano il vaccino, non praticano misure di mitigazione e  spesso vivono in condizioni di affollamento. Lo scorso marzo, il tasso di contagio in questa comunità era del 34%. All’inizio di agosto, con la riapertura delle scuole, il tasso di positività tra gli Haredimn è raddoppiato in soli 7 giorni. Per questo il governo Israeliano sta pensando di legificare sull’obbligo vaccinale, proprio considerando, come accennavamo prima, che l’esistenza di “serbatoi” resistenti al vaccino pone un problema all’intera comunità nazionale
    • Il 25% della popolazione Israeliana ha meno di 20 anni, di cui circa 1 milione rifiuta di essere vaccinato. Quindi, nonostante il tasso si vaccinazione completa nella popolazione adulta sia del 78%, globalmente si aggira attorno al 63%

Nonostante ciò, i dati da Israele confermano che la copertura vaccinale è altamente efficace nel prevenire la malattia grave e la morte (figura 3). Con un numero di contagi ora più elevato rispetto allo scorso febbraio, le morti sono il 50% in meno.

A) Nuovi casi di COVID-19 giornalieri in Israele nel periodo marzo 2020-settembre 2021.
B) Numero di morti giornaliere per Covid-19 in Israele nel periodo marzo 2020-settembre 2021.
C) Tasso di vaccinazione in Israele.

Stati Uniti

Negli Stati Uniti la vaccinazione non è omogenea tra i vari stati (figura 4), per questo la variante delta si sta trasmettendo molto velocemente.  In particolare, negli stati del sud come Arkansas, Mississipi, Florida e Alabama ci sono nuovi e importanti focolai epidemici che riguardano essenzialmente la popolazione non vaccinata. In Arizona il 94,1% dei casi di COVID-19 riguarda la popolazione non vaccinata.  Gli ospedali rischiano nuovamente di non riuscire più a contenere i pazienti. Molti hanno le terapie intensive al limite della capienza. Al 28 agosto, l’incremento settimanale dei nuovi contagi era di 128347 unita contro le 33000 della settimana precedente (dati del Centre for Disease Control and prevention, CDC).

Percentuale di vaccinazioni nei singoli stati U.S.A, agosto 2021.

Globalmente, e non per singoli stati, il tasso di vaccinazione è relativamente basso (53%, figura 5), Ciò si riflette sull’andamento di contagi e morti, come si osserva dalla figura 6: l’andamento dei contagi e delle morti è, di fatto, identico, contrariamente ai dati del regno Unito e di Israele, dove è ben visibile la forbice tra contagiati e morti.

Per questo, il Presidente Biden ha già disposto l’obbligo vaccinale per chiunque lavori per agenzie federali e organizzazioni private con più di 100 dipendenti.

Tasso di vaccinazione negli Stati Uniti
A) Casi giornalieri di Covid-19 negli Stati Uniti.
B) Morti giornaliere negli Stati Uniti per Covid-19

Italia

Nel nostro Paese, i dati confermano quanto visto per Regno Unito ed Israele: abbiamo raggiunto uno dei tassi di vaccinazione più alti d’Europa (figura 7), che rende quindi conto di un numero di morti molto limitato nonostante una ripresa dei contagi (figura 8). Siamo il Paese europeo in cui il virus circola meno.

Figura 7. Tasso di vaccinazione in Italia
Figura 8. A) Casi giornalieri di COVID-19 nel nostro Paese
B) Morti giornaliere nel nostro Paese nel periodo marzo 2020-settembre 2021.

Osservando nel complesso i grafici, se dobbiamo sottolineare che l’aumento nel numero dei contagi precede di una quindicina di giorni l’aumentare del numero dei morti, non possiamo tuttavia non notare che i Paesi con alti tassi di vaccinazione sono quelli più protetti da un punto di vista sanitario.

Nel mondo, nel momento in cui scriviamo, sono state somministrate 5,8 miliardi di dosi, a copertura del 42,6% della popolazione. Al giorno ne vengono somministrate 29,6 milioni.

Il dato più allarmante è che solo l’1,9% della popolazione nei Paesi a basso reddito ha ricevuto almeno 1 dose.

Il paradosso delle infezioni tra i vaccinati (“breakthrough infections”)

Il fatto che un individuo vaccinato contro la Covid-19 possa essere infettato ha destato sconcerto. In realtà, la definizione scientifica di vaccino ci riporta al suo ruolo primario, ossia al proteggere dalla malattia, non dall’infezione.  Infatti, un vaccino è un prodotto biologico che induce una risposta immunitaria identica a quella evocata dalla malattia verso la quale è prodotto, senza che questa si estrinsechi.   Nulla di allarmante quindi.

Tuttavia, se i dati non vengono correttamente percentualizzati, le infezioni tra i vaccinati possono creare l’apparente paradosso di avere più contagi tra i vaccinati che nei non vaccinati – lo stesso dicasi per le ospedalizzazioni.  Se invece si fa correttamente riferimento alle categorie dei vaccinati e non vaccinati, allora si osserva che in realtà i casi di reinfezione sono rari. Ad esempio, vediamo l’analisi del CDC statunitense del 7 settembre: 176 milioni di americani erano stati vaccinati; tra questi, 14. 115 sono stati reinfettati e una larga parte (10.471) ha richiesto l’ospedalizzazione come si osserva nella seguente tabella.

Sembrano numeri enormi, ma la percentuale di reinfezione tra i vaccinati che richiedono ospedalizzazione è dello 0,008%, quella di un non vaccinato è 29 volte superiore.

Sempre il CDC ha stimato che la probabilità di reinfezione è molto bassa, anche se non è possibile stimarla con precisione per via della grande percentuale di infezioni asintomatiche tra i vaccinati che non vengono rilevate. Tuttavia, un recente lavoro pubblicato su The Lancet, su 1,2 milioni di vaccinati nel Regno Unito (con Pfizer, Astra Zeneca e Moderna) ha rilevato una probabilità di reinfezione tra i vaccinati con ciclo completo dello 0,2%. Tra questi, il 94% ha sviluppato infezione asintomatica. La probabilità di un non vaccinato di infettarsi in presenza di variante delta è 10 volte superiore.

Le persone vaccinate, inoltre, non consentono al virus di replicarsi a lungo, perché il loro titolo anticorpale lo neutralizza rapidamente, e limitano, quindi, l’insorgere di varianti.  Chi si vaccina elimina il virus velocemente, limitandone la replicazione, e ospita il virus solo in alcuni tessuti (a volte solo nella saliva), limitando sintomi e danni multisistemici. Questo significa anche che è contagioso per un lasso di tempo più breve, nonostante la carica virale rilevata nei tamponi orofaringei nei casi di breakthrough infection sia la stessa dei non vaccinati.

Come affrontare le nuove ondate di infezione: la terza dose, il mix di vaccini e la posizione dell’OMS

Lo abbiamo detto: abbiamo un’arma soltanto per ora, i vaccini. Potenziare la nostra risposta immunitaria contro il SARS-COV-2 è il mezzo migliore per controllare la pandemia, evitare l’insorgenza di nuove varianti e, soprattutto, proteggerci dalla malattia grave a la morte. Questo ha, come immediato risvolto, una decompressione del sistema sanitario, con minor numero di ospedalizzazioni e ammissioni in terapia intensiva, riducendo il rischio di nuove chiusure.

Per questa ragione, molti Paesi, incluso il nostro, hanno iniziato con la somministrazione di terze dosi (un richiamo a tutti gli effetti) a soggetti particolarmente a rischio, come gli immunodepressi, i malati oncologici, coloro affetti da malattie croniche. La ragione è che in questi individui la risposta immunitaria è deficitaria – come nei grandi anziani che saranno i prossimi ad avere il richiamo – ed hanno bisogno di un potenziamento.

Anche in questa occasione i primi ad aver iniziato con la somministrazione delle terze dosi sono stati gli Israeliani. I dati, pubblicati di recente sul New England Journal of Medicine ed estrapolati dall’analisi di circa 1 milione e 138 mila ultrasessantenni vaccinati con ciclo completo dal febbraio ultimo scorso, mostrano che un richiamo del vaccino – Pfizer/BioNTech – riduce il rischio di infezione dell’11.3% e il rischio di malattia grave del 20% se si è già vaccinati.

Anche nel nostro Paese, la scorsa settimana si è iniziato con la somministrazione dei richiami ai soggetti a rischio. In Italia, tutti e 4 i vaccini approvati dall’EMA sono stati utilizzati (Pfizer/BioNTech, Moderna, Astra Zeneca e Johnson&Johnson). I richiami però saranno eseguiti esclusivamente con il vaccino Comirnaty (Pfizer).  Coloro che sono stati vaccinati con altri vaccini riceveranno, pertanto, un vaccino diverso, il cosiddetto “mix and match”

Sul “mix and match” parte della comunità scientifica, e anche noi, si era dichiarata scettica sul richiamo eterologo per l’insufficienza di dati disponibili.  Questa posizione era di prudenza, ma la natura si è rivelata più efficiente delle nostre previsioni.  Infatti, una recente pubblicazione su Nature Medicine ha analizzato la riposta immunitaria di individui vaccinati con Vaxzevria (Astra Zeneca) in prima dose e con Comirnaty in seconda dose a confronto con la vaccinazione completa omologa (Vaxzevria/Vaxzevria e Comirnaty/Comirnaty), dimostrando che la combinazione eterologa è addirittura  più efficiente di un fattore 11.5 nell’indurre anticorpi neutralizzanti rispetto alla combinazione omologa, mentre le cellule B di memoria – che riconoscono il virus ad una nuova infezione – sono prodotte nella stessa proporzione sia nel caso di vaccinazione omologa che eterologa.

Importante è il fatto che gli anticorpi neutralizzanti prodotti dopo vaccinazione eterologa sono in grado di riconoscere le varianti alfa, beta e gamma, mentre la vaccinazione omologa con Vaxzevria è protettiva contro il ceppo originario e la variante alfa. Inoltre, la vaccinazione eterologa induce una quantità superiore di cellule T sia CD4+ che CD8+, a fronte di un lieve aumento dell’intensità egli effetti collaterali rispetto alla vaccinazione omologa. 

L’ottima efficacia del “mix and match” è una chiara dimostrazione di quanto la scienza stessa debba essere flessibile e debba dimostrarsi capace di imparare e di “aggiustare il tiro” delle proprie previsioni di fronte ad un virus nuovo, in continua evoluzione: le nostre conoscenze evolvono di pari passo.

Terza dose

Sulla terza dose di vaccino la posizione dell’OMS è molto chiara: sarebbe più opportuno ritardarla al fine di utilizzare le dosi disponibili per vaccinare le popolazioni dei Paesi a basso reddito che sono sostanzialmente scoperte e rappresentano un pericoloso serbatoio per lo sviluppo di nuove varianti (figura 9).

Noone is safe untile everyone is safe” (nessuno è al sicuro, finché ognuno non è al sicuro): con questo slogan la Coalizione per la Prevenzione delle Epidemie e per l’Innovazione, l’OMS e l’organizzazione non governativa GAVI hanno lanciato l’iniziativa COVAX. L’obiettivo è distribuire distribuire 2 miliardi di dosi di vaccino in 92 paesi a reddito medio e basso entro la fine del 2021. Tuttavia, siamo ancora molto lontani dal raggiungimento di questo obiettivo.  

Figura 9. Numero di dosi di vaccino somministrate nei Paesi ad alto, medio-alto, medio-basso e basso reddito al 26 agosto 2021.

Il vaccino ai bambini

I vaccini ad oggi approvati sono destinati, come sappiamo, agli ultradodicenni per i vaccini ad mRNA, mentre i vaccini a vettore adenovirale (l’Europa non ha rinnovato il contratto con Astra Zeneca, ad ogni modo) alla popolazione dai 16 anni in su. Molte case farmaceutiche stanno eseguendo trial clinici sui bambini, diversificando per fasce di età: 6 mesi-2 anni, 2-4 anni e 5-11 anni. Questo perché un neonato è diverso da un bambino di 4 ed uno di 4 anni è diverso da un pre-adolescente, per situazione ormonale, accrescimento osseo e neurosviluppo. I trial clinici pediatrici sono ancor più scrupolosi e rappresentano l’ultimo braccio di sperimentazioni cliniche molto estese, come quelle riguardanti i vaccini anti-Covid-19, che prevedono una fase preclinica di laboratorio e su animali, e 3 fasi cliniche su individui adulti. Solo dopo questo lungo processo, si arriva al trial clinico pediatrico.

L’opportunità o meno di vaccinare i bambini è ancora oggetto di dibattito. Ci sono buone ragioni sia per farlo che per non farlo.  

Da un lato, i bambini si infettano quasi esclusivamente da un adulto. Infatti, il tasso di infezione tra i bambini è notevolmente basso e la malattia ha decorso benigno – salvo casi particolari, come vedremo tra poco – o asintomatica. Inoltre i bambini eliminano il virus molto velocemente, grazie ad una risposta immunitaria innata molto potente e ad una massiccia produzione di anticorpi neutralizzanti, e pertanto sono contagiosi una finestra temporale ristretta.  Sembrerebbe, quindi, che vaccinare i bambini non sia così vantaggioso. 

Tuttavia, la carica virale dei bambini è la stessa degli adulti. I bambini rappresentano, pertanto, serbatoi potenziali in cui il virus può evolvere, generando varianti.  Inoltre, e più importante dal punto di vista della salute dei nostri bambini, sono le possibili gravi complicazioni che in una certa percentuale accompagnano la Covid-19 nei bambini. I giovani e i bambini, pur con rara frequenza, possono sviluppare MISC (multisystemic inflammatory syndrome in children), una sindrome infiammatoria multiorgano.  Sul sito del CDC,  si osserva da tempo, che, a fronte della bassa incidenza di effetti avversi del vaccino tra i giovani, si riscontra invece un’incidenza significativamente maggiore di complicazioni, anche con esiti fatali, nei giovani non vaccinati che sviluppano la Covid-19.  Tra queste, la MIS-C indotta da SARS-CoV-2 può colpire vari organi, generando un’infiammazione al livello dei vasi sanguigni simile alla sindrome di Kawasaki, disfunzioni cardiache e disfunzioni a carico di altri organi (qui, una rassegna completa sulla MIS-C). Alcuni studi epidemiologici mostrano che queste complicazioni della COVID-19 sono tutt’altro che rare nei bambini. Il Brasile fornisce, purtroppo, dati incontrovertibili sullo sviluppo di complicazioni anche gravi della Covid-19 in un’alta proporzione di bambini infetti. Uno studio prospettico condotto in 17 unità di terapia intensiva pediatrica in cinque stati del Brasile, nel periodo marzo-luglio 2020, ha rilevato diverse forme di MIS-C in pazienti di età media di 6,2 anni. Considerando l’incidenza di complicazioni da COVID-19 nei giovani, il CDC e l’Accademia  di Pediatria  Americana concludono che i benefici della vaccinazione nella fascia  da 12 a 17 anni superino i rischi e continuano quindi a raccomandarla (qui la raccomandazione dell’Accademia di Pediatria).

Da questo insieme di dati dobbiamo ricavare che, se è vero che globalmente i giovani traggono meno beneficio rispetto a fasce d’età più alte, tuttavia è anche vero che lo sviluppo di complicazioni infiammatorie, anche gravi, a livello multiorgano in bambini così piccoli è un rischio concreto e francamente fonte di seria preoccupazione per le possibili ripercussioni a lungo termine, che non siamo ancora in grado di valutare. 

Queste preoccupazioni vanno bilanciate rispetto a studi come quello coordinato dall’Ospedale Pediatrico di Cincinnati (Ohio), pubblicato sul New England Journal of Medicine, che riporta il profilo di sicurezza, immunogenicità ed efficacia del vaccino Pfizer negli adolescenti dai 12 ai 15 anni. Proprio nel momento in cui scriviamo, sono stati resi noti i dati sui trial clinici pediatrici, che dimostrano la sicurezza e tollerabilità del vaccino Pfizer anche nella fascia 5-11 anni.   

L’ospedale Bambino Gesù di Roma, in cui i casi di ospedalizzazione da Covid-19 sono aumentati negli ultimi mesi, ricorda che ci sono anche tra i bambini soggetti fragili: i piccoli malati oncologici, gli immunodepressi, i cardiopatici. Questi hanno lo stesso diritto di essere protetti degli individui adulti e sarebbe ragionevole vaccinarli, ora che è attestato il profilo di efficacia e sicurezza dei vaccini anti-Covid-19 fino a 5 anni e che l’uso clinico è di imminente approvazione.

Le misure di mitigazione della circolazione virale: green pass e proteste

Il fatto che anche i vaccinati possano essere veicolo di infezione rende ancora necessaria estrema prudenza e il rispetto di misure di contenimento della pandemia. Alcune le conosciamo (mascherina in ambiente chiuso e/o affollato, disinfezione delle mani, distanziamento).

Altre, come il green pass, hanno sollevato cortei all’insegna di una libertà negata, paragonata, nei casi più estremi e incomprensibili, al nazismo.  Questa ulteriore misura di mitigazione (in uso anche in Francia) ha lo scopo fondamentale di evitare un nuovo collasso ospedaliero.

Il vaccino, il tampone negativo entro le 48 (ora 72) ore e l’aver contratto la malattia servono a questo. Le categorie di persone che rispettano i 3 criteri sopra riportati con pochissima probabilità graveranno sugli ospedali. I vaccinati e gli ex-Covid perché già protetti dagli anticorpi o comunque in grado di rispondere prontamente alla malattia; coloro che hanno un tampone negativo nelle ultime 72 ora perché verosimilmente non hanno contratto il virus (con un piccolissimo margine residuo nella possibile finestra temporale di infezione).

Un punto a cui non è stato dato il giusto peso è la grandissima utilità del green pass a effettuare quel tracciamento che lo scorso anno è completamente saltato. Fare paragoni tra il numero di contagi dello scorso anno (quando il numero totale di tamponi non veniva nemmeno riportato) e quello di quest’anno è fuori luogo.  La spinta del green pass verso un aumento del numero dei tamponi ci fornisce una situazione molto più reale dell’andamento dell’epidemia, con numeri di incidenza ogni 100 mila abitanti molto più attendibili, e la possibilità di reagire prontamente nel momento in cui la curva epidemica fletta verso l’alto.

Conclusioni

Da questo esposto, abbiamo imparato moltissimo sul SARS-CoV-2 e sulla Covid-19. La pandemia che ci ha colpito ci ha insegnato ad essere duttili, a non dar nulla per scontato e a mettere in discussione le interpretazioni man mano che nuovi dati scientifici vengono prodotti. Siamo ancora nel bel mezzo di una traversata oceanica. Navigheremo a volte col vento in poppa, in acque calme, a volte, forse, saremo sorpresi dalla tempesta. Dobbiamo tenere la barra del timone dritta sempre, avendo come alleati ancora la prudenza e la ricerca scientifica che ha rappresentato la chiave di volta per affrontare acque turbolente e traghettarci in un porto sicuro.