Diritti e Doveri

LA CARTELLA CLINICA
Profili penalistici e civilistici

19 Novembre 2021


Di Marianna Rillo, ufficio legale Club Medici.

Nel 1992 il Ministero della Sanità ha definito la cartella clinica come l’insieme di documenti che registrano un complesso eterogeneo di informazioni, aventi lo scopo di rilevare il percorso diagnostico-terapeutico di un paziente al fine di predisporre gli opportuni interventi sanitari e di poter effettuare indagini scientifiche, statistiche e medico-legali[1].
La cartella clinica permette, dunque, di avere traccia di tutte le attività poste in essere, dal momento del ricovero fino alle dimissioni di un paziente. Quindi, una corretta tenuta della stessa apre alla possibilità di monitorare e controllare l’operato dei medici, agevolando la ricostruzione del nesso eziologico rispetto ad eventuali danni lamentati dal paziente.
Visto il ruolo della cartella clinica, nell’operazione di compilazione della stessa importante è il rispetto di requisiti sia di natura formale che sostanziale.
Secondo l’art. 26 del codice di deontologia medica la cartella clinica (delle strutture sia pubbliche che private), deve essere redatta in forma chiara, con puntualità e diligenza. Questo garantisce trasparenza oltre che l’accesso ai dati da parte degli utenti come stabilito dalla l. 8 marzo 2017, n.24, artt. 4 e 12. L’omissione di un’informazione nella cartella può costituire indice di colpa dell’autore e più in generale può determinare la formulazione di un giudizio complessivo sulla qualità dell’assistenza prestata. Nel compilare la cartella clinica, un altro importante requisito da tenere in considerazione è quello della veridicità. Ciò che viene trascritto, deve essere rilevato dal personale medico o infermieristico competente, e ciò deve avvenire in maniera contestuale rispetto al loro verificarsi. Come affermato anche dalla giurisprudenza, una successiva indicazione nella cartella clinica di fatti pregressi è (come vedremo meglio dopo) condotta idonea ad integrare un reato penale. Non da ultimo deve tenersi in considerazione il requisito della riservatezza, argomento certamente attuale quanto problematico nella presente materia. Infatti è necessario un continuo contemperamento tra la c.d. privacy del paziente e il diritto di accesso di terzi eventualmente coinvolti nella “vicenda” sanitaria del degente[2].
La cartella clinica in quanto atto pubblico di fede privilegiata (con riferimento alla sua provenienza dal pubblico ufficiale e ai fatti da questi attestati come avvenuti in sua presenza[3]), dà luogo, agli effetti della tutela penale, alla configurazione di una serie di reati laddove la condotta si allontani dalle corrette metodologie di inserimento dati, mentre, da un punto di vista civile, comporta l’applicazione del regime probatorio di cui agli artt. 2699[4] ss. c.c.

Rilevanza della cartella clinica in ambio penale
Quanto alle tipologie di reato conseguenti a manomissioni, omissioni e alterazioni della cartella clinica, si vengono ad integrare i reati di falso materiale[5] e falso ideologico in atto pubblico[6].
Il reato di cui all’art. 476 c. p., concerne le modalità di annotazione dei dati in cartella, non tanto la verità degli stessi. Mentre la Cassazione, con sentenza n.35104 ha ritenuto colpevole del reato di falso ideologico ex art. 479 c.p., il sanitario che ha inserito indicazioni non veritiere in una scheda di dimissione ospedaliera (Sdo). Tale scheda, infatti, fa parte della cartella clinica e deve contenere informazioni sia di tipo anagrafico che clinico, nonché informazioni relative alla struttura dove è avvenuto il ricovero. Pertanto, l’indicazione di informazioni non veritiere all’interno della cartella clinica, e dei documenti ivi contenuti, configura il reato ex art. 479 c.p[7].
Anche l’eventuale indicazione postuma di fatti veritieri, avvenuti in momenti precedenti, non solo lede il principio della tempestività nella compilazione delle cartelle, ma costituisce una condotta integrante reato. A tal riguardo la Cassazione, con sentenza n. 37314, ha precisato che l’aggiunta di un’annotazione in cartella, integra il reato di falso materiale in atto pubblico, ancorché vera, in quanto considerata comunque alterazione della cartella clinica. Questo avviene perché l’annotazione è eseguita materialmente in un contesto cronologico successivo e, pertanto, diverso da quello reale.
Ai fini della sussistenza del reato suddetto, a nulla rileva infatti l’intento del soggetto, il quale potrebbe essere mosso da buona fede nel di ristabilire la verità. Da ciò si ricava che ciascuna annotazione deve essere contestuale al suo verificarsi e in caso di omissione, dunque, il sanitario non può inserire successivamente i dati mancanti.
Peraltro, merita precisare che il ritardo nella compilazione o la mancata compilazione sono condotte che possono integrare anche il reato di omissione di atti di ufficio previsto dall’art. 328 c.p[8].

Rilevanza della cartella clinica in ambito civile
In ambito civile, le attestazioni contenute in una cartella clinica (redatta da un’azienda ospedaliera pubblica, o da un ente convenzionato con il servizio sanitario pubblico), hanno natura di certificazione amministrativa, cui è applicabile lo speciale regime di cui agli artt. 2699 e ss. c.c.
Ciò vale per le trascrizioni di tutte le attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento[9], mentre restano al di fuori di tale copertura le valutazioni, le diagnosi o, comunque, le manifestazioni di scienza o di opinione espresse dal personale medico e sanitario anche se inserite in cartella.
Dunque in tema di dichiarazioni rese in una cartella clinica (anche se di un istituto privato), queste fanno piena prova di quanto dichiarato[10], in quanto avvenute in presenza del pubblico ufficiale che l’ha redatta e potranno essere smentite solo all’interno di un processo a fronte di querela di falso.[11] Ai sensi dell’art. 221 c.p.c. la querela di falso può proporsi tanto in via principale[12], quanto in corso di causa in qualunque stato e grado di giudizio, finché la verità della documentazione non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato[13]. La querela deve contenere, a pena di nullità, l’indicazione degli elementi e delle prove della falsità, e deve essere proposta personalmente dalla parte oppure a mezzo di procuratore speciale, con atto di citazione o con dichiarazione da unirsi al verbale d’udienza. Distinguiamo una falsità materiale, che investe il profilo estrinseco del documento (cosa diversa dal mero errore materiale, concerne la genuinità del documento, è il caso della contraffazione – ad esempio perché esso è stato formato da un soggetto diverso dall’autore apparente – o dell’alterazione successiva alla sua formazione), da una falsità ideologica, che invece attiene al suo contenuto. Il “falso” rileva sia nel processo civile che in quello penale. Nel giudizio civile si mira esclusivamente a provare la non corrispondenza al vero del documento impugnato, mentre in quello penale si vuole individuare, e di conseguenza punire, l’autore del falso art.746 e ss c.p.
Per quanto riguarda i rapporti tra il processo civile e quello penale, va sottolineato all’abolizione del principio della pregiudizialità penale rispetto al processo civile, i due giudizi possono svolgersi separatamente.

Dunque dalla cartella clinica, se correttamente compilata, può ricavarsi l’attività svolta tempo per tempo sul paziente da parte del personale addetto, ciò a tutela sia del diritto alla salute della persona, che del diritto di difesa del personale medico. Però se da un lato la completezza della cartella può costituire utile strumento a difesa dell’attività espletata dai sanitari, è evidente che una sua non corretta tenuta in nessun modo può pregiudicare il paziente. La giurisprudenza è andata ben al di là degli effetti probatori previsti dal Codice Civile in riferimento agli atti pubblici e ciò in forza dei principi di vicinanza della prova e del più probabile che non[14].
Una recentissima sentenza della Cassazione[15] del febbraio 2021, ribadisce l’orientamento secondo cui, in tema di responsabilità medica, la difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni nel caso in cui sia impossibile la prova diretta. Tale principio opera non solo ai fini dell’accertamento dell’eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente.
La Cassazione successivamente, con sentenza del marzo 2021[16], sottolinea il concetto secondo cui l’eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente, ma precisa, ciò può avvenire solo se il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno. L’irregolare tenuta della cartella clinica, pur costituendo violazione del dovere previsto dall’art. 26 del Codice di Deontologia Medica e del generale dovere di diligenza previsto dall’art. 1176 c.c.[17], non può essere considerata autonoma fonte di responsabilità a carico del medico o della struttura sanitaria.
Per cui, dall’incompletezza della cartella clinica non può farsi discendere direttamente la prova di una condotta colposa, ma è pur sempre necessaria una condotta astrattamente idonea a provocare la lesione[18].
L’orientamento giurisprudenziale richiamato va al di là del valore probatorio imposto dalla natura delle cartelle cliniche come regolato dall’art. 2699 ss. c.c. L’ampiezza della tutela così assicurata al danneggiato in materia di onere probatorio trova giustificazione in forza dell’interesse alla salute, quale diritto costituzionale individuale e della collettività.  

Sempre la Cassazione[19], inoltre, afferma che le conseguenze di una inesatta compilazione della cartella clinica, così come nell’ipotesi di smarrimento della stessa, devono ricadere sulla struttura sanitaria e/o sul medico, e non possono in alcun modo tradursi in un danno nei confronti di colui che ha diritto alla prestazione sanitaria.
Sulla base di questa recentissima sentenza è necessario analizzare un ultimo aspetto, quello relativo alla distinzione tra incompleta (e/o inesatta) compilazione della cartella clinica e mancata conservazione della stessa.
L’obbligo di compilazione, certamente gravante sui medici, è altro rispetto all’obbligo di conservazione. Tale obbligo non può ridondare a carico del medico in termini assoluti, nel senso che per tutta la durata del ricovero il responsabile della tenuta e della conservazione della cartella è il medico, questi però esaurisce il proprio obbligo nel momento in cui consegna la cartella all’archivio centrale, cosa che avviene in caso di dimissione del paziente o di decesso. Da questo momento in poi la responsabilità per omessa conservazione della cartella si trasferisce in capo alla Struttura, quindi alla direzione sanitaria, che deve conservarla in luoghi appropriati, non soggetti ad alterazioni e non accessibili a estranei. Dopo aver correttamente compilato e consegnato la cartella clinica, il medico non può più essere ritenuto responsabile del suo smarrimento, al contrario, potrebbe risultarne pregiudicata l’azione di difesa a causa dell’impossibilità di documentare le attività svolte e regolarmente annotate sulla cartella clinica.

Fatte queste doverose osservazioni, occorre però segnalare che il medico non è esonerato da qualunque dovere di carattere probatorio. Nelle cause di responsabilità sanitaria, il ruolo dei medici convenuti insieme alla struttura sanitaria è (non meno che quello dei pazienti, o parenti dei pazienti che abbiano agito in giudizio) un ruolo attivo, nel senso che, ove convenuti, devono attivarsi per articolare nel modo migliore la propria difesa[20]. Quindi sono gli stessi medici, che abbiano scrupolosamente compilato la cartella clinica, a poterne e doverne richiedere copia alla struttura per acquisirne la disponibilità al fine di articolare le proprie difese e di produrla in giudizio. Pertanto qualora i sanitari non si siano attivati per tempo (ossia all’inizio della causa) per acquisire copia della cartella, non possono con successo pretendere che le eventuali lacune siano imputate alla struttura sanitaria. Quindi se non possono ritenersi gravati dagli obblighi di conservazione nei termini sopra indicati, essi non sono esenti dall’ordinario onere probatorio.
In conclusione pur mitigando il principio della vicinanza della prova, dal momento in cui il medico è sollevato dalla responsabilità della conservazione della cartella, questi però non è sollevato anche dall’onere di richiederla.
Per cui se ne deduce che la conseguenza della descritta carenza documentale grava negativamente non solo sulla struttura sanitaria, la quale ha un obbligo di conservazione delle cartelle cliniche (come più vote ribadito dalle circolari del Ministero della Sanità, obbligo illimitato nel tempo in quanto esse rappresentano un atto ufficiale) ma anche sul professionista sanitario.

In ultimo, in tema di responsabilità sanitaria, l’obbligo di diligenza di cui all’art. 1176 c.c, grava su ciascun componente dell’équipe medica e concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui (errori evidenti e non settoriali). Sicché rientra tra gli obblighi di ogni singolo componente di una équipe chirurgica, sia esso in posizione sovra o sotto-ordinata, anche quello di prendere visione, prima dell’operazione, della cartella clinica contenente tutti i dati per verificare la necessità di adottare particolari precauzioni imposte dalla specifica condizione del paziente. Questo per segnalare, eventualmente, anche senza particolari formalità, il suo motivato dissenso rispetto alle scelte chirurgiche effettuate e alla stessa scelta di procedere all’operazione, e solo in tali casi può esimersi dalla concorrente responsabilità di membri dell’equipe nell’inadempimento della prestazione sanitaria[21].

Da questo breve excursus risulta evidente l’importanza della cartella clinica quale documento processuale, sia in sede civile che penale, con conseguenze, come visto, diverse in relazione ad ogni ambito.


[1] Ministero della Sanità, Linee di guida 17 giugno 1992
[2] Cassazione 7 febbraio 2018, n.3004
[3] Cassazione 16 aprile 2009, n.31858
[4] L’atto pubblico è il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato
[5] Art. 476 c.p.
[6] Art. 479 c.p.
[7] Cassazione 22 ottobre 2018, n.55385
[8] Cassazione 13 gennaio 2015, n.6075
[9] Cassazione 30 novembre 2011, n.25568
[10] Tribunale Cassino 23 marzo 2020, n.299
[11] Cassazione 14 febbraio 2020, n.1462
[12] Art. 162 c.p.c.
[13] Art. 324 c.p.c.
[14] Cassazione 27 settembre 1999, n.10695
[15] Cassazione 18 febbraio 2021, n.4424; Cassazione 20 novembre 2020, n.26428
[16] Cassazione 1° marzo 2021, n.752
[17] La giurisprudenza ritiene al riguardo che una esatta tenuta della cartella clinica da parte del personale addetto configuri adempimento della prestazione lavorativa secondo diligenza ex art. 1176, comma 2 c.c., ed eventuali mancanze potrebbero essere contestate e sanzionate al personale anche in via disciplinare.
[18] Cassazione 8 febbraio 2021, n.152
[19] Cassazione 19 gennaio 2021, n.347
[20] Cassazione 13 luglio 2018, n.18567
[21] Cassazione 17 ottobre 2019, n.26307