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La terza dose di vaccino anti-COVID-19: i dubbi e le risposte
di BARBARA ILLI

15 Novembre 2021


Di Barbara Illi, Istituto di Biologia e Patologia Molecolari del CNR.

Anche se le temperature sono ancora miti, siamo in pieno autunno e il SARS-CoV-2, come tutti i virus respiratori, ne sta approfittando, come atteso. Infatti, da qualche giorno sentiamo parlare di quarta ondata dell’epidemia di Covid-19 in Europa. Il consulente del Ministro della Salute Speranza, Walter Ricciardi, spera che per il nostro Paese sia “un’ondina”. Oggi, lo scopo è tenere sotto controllo l’epidemia e tutte le evidenze scientifiche, per quanto parziali visto che ci troviamo di fronte ad una infezione e ad una malattia che è ancora nuova da un punto di vista delle conoscenze accumulate in questi 20 mesi, puntano sui vaccini come arma di punta per farlo.

Perché una terza dose: la durata della protezione anticorpale.

Il SARS-CoV-2 ha aperto una breccia anche tra i vaccinati (che, lo ricordiamo, hanno comunque minore probabilità di contagiarsi e contagiare e, soprattutto, di necessitare di ricovero ospedaliero). Questo non deve sorprendere poiché lo scopo primario di un vaccino è evitare l’insorgenza di malattia. Tuttavia, alcuni vaccinati si ammalano. I più fragili possono necessitare di ricovero ospedaliero. Perché? La risposta è nella durata della protezione da parte degli anticorpi neutralizzanti (quelli che impediscono al virus di entrare nelle nostre cellule).

Una prima evidenza di un decadimento nel tempo della nostra capacità di rispondere all’infezione proviene da uno studio effettuato in Qatar e pubblicato sul New England Journal of Medicine. Il lavoro ha preso in considerazione circa 950.000 persone riceventi almeno una dose del vaccino Comirnaty (Pfizer/BioNtech), di cui oltre il 90% (circa 905.000) con ciclo completo, dimostrando come, a 5-7 mesi di distanza, il vaccino rimanga efficace nel prevenire l’infezione solo nel 20%, dei casi. La protezione nei confronti della malattia sintomatica si attesterebbe invece ad un 40% a più di 7 mesi dalla vaccinazione, mentre alta rimane la protezione dall’ospedalizzazione e dalla morte (82%). Uno studio nel Regno Unito ancor più recente (https://www.medrxiv.org/content/10.1101/2021.09.15.21263583v1), ma non ancora pubblicato, ha considerato quasi 4 milioni di individui tra i 16 e 80 anni, vaccinati in proporzione variabile con il vaccino Vaxzevria (Oxford/Astra Zeneca, 38,7%), Comirnaty e Spikevax (Moderna, 2,4%), tra cui 1.457.391 individui sintomatici. I dati sul vaccino di Moderna riportati nello studio sono solo parziali e non li discutiamo qui. I risultati del lavoro mostrano che, a circa 6 mesi dall’immunizzazione, la protezione dalla malattia sintomatica scende dal 67% al 47% per il vaccino Vaxzevria e dal 90% al 70% per il vaccino Comirnaty, per la fascia da 16 a 65 anni. Un decadimento più significativo si osserva tra gli ultrasessantacinquenni: con il vaccino Vaxzevria la protezione scende dal 60% al 37%, mentre con Comirnaty si va dall’ 80% al 55% circa. L’accentuazione della caduta dei livelli di anticorpi nelle persone più anziane va cercata in un fenomeno noto come “immuno aging”. In buona sostanza, anche il sistema immunitario invecchia e risponde meno prontamente alle infezioni, (https://link.springer.com/content/pdf/10.1007/s11357-021-00323-3.pdf). Tuttavia, il vaccino, a 6 mesi di distanza dalla sua somministrazione, protegge ancora molto efficacemente dall’ospedalizzazione e dalla morte. Infatti, Vaxzevria si è rivelato ancora efficace al 77% nella fascia 16-65 anni e al 76% per gli ultrasessantacinquenni; il vaccino Comirnaty protegge ancora al 93% individui appartenenti alla fascia 16-65 anni e al 91% gli ultrasessantacinquenni. I dati sono ancora migliori per quanto riguarda la protezione dalla morte: il vaccino Vaxzevria protegge dalla morte all’80% e il vaccino Comirnaty al 94%, indipendentemente dalla fascia d’età. Gli studi effettuati nel Qatar e nel Regno Unito sono riassunti nella tabella 1. In maniera concorde, un lavoro israeliano pubblicato il 4 novembre sulla rivista Nature Communications, mostra come il rischio di infezione nei vaccinati con Comirnaty aumenti di 2,3 volte circa a 6 mesi dalla vaccinazione.

Protezione dalla malattia sintomaticaProtezione dalla    ospedalizzazioneProtezione dalla morte
NEJM, 6/10/2021 (Qatar), >7 mesi dalla vaccinazione40% (Comirnaty)82% (Comirnaty)82% (Comirnaty)
    
Medrixv, 6/10/2021 (UK), 6 mesi dalla vaccinazione16-65 aa: 47% (Vaxzevria) 70% (Comirnaty) >65 aa: 37% (Vaxzevria) 55% (Comirnaty)16-65 aa: 77% (Vaxzevria) 93% (Comirnaty) >65 aa: 76% (Vaxzevria) 91% (Comirnaty)80% (Vaxzevria) 94% (Comirnaty)  
Tabella 1. Efficacia di protezione dei vaccini Vaxzevria e Comirnaty a 6-7 mesi dal completamento del ciclo vaccinale in due differenti studi

Se da un lato questi dati ci confortano nel confermare quanto i vaccini siano uno strumento potentissimo a tutela della salute pubblica, dall’altro ci dicono anche che dobbiamo prestare massima attenzione man mano che il tempo dalla vaccinazione passa: questo fenomeno, detto “waning” (in calo), comporta un aumento del rischio di infettarsi, nonostante l’immunizzazione, e consente quindi al virus di riprendere a circolare ed, eventualmente, metterci di nuovo in ginocchio.

La risposta dei governi

I primi Paesi ad aver sperimentato una ripresa dei contagi tra gli individui vaccinati – mentre il virus ha continuato a circolare indisturbato tra i non vaccinati – sono quelli che ci hanno preceduto nella campagna di vaccinazione, ossia Regni Unito ed Israele. Quest’ultima nazione ha vissuto una forte terza ondata a ridosso dell’estate e già dal 30 luglio il governo israeliano ha dato l’avvio alla somministrazione di una terza dose (o “booster” ovvero “di potenziamento”) di vaccino Comirnaty a persone di 60 anni o più che avessero completato il ciclo vaccinale almeno 5 mesi prima. I dati, pubblicati sul New England Journal of Medicine a settembre scorso riguardano circa 1.134.000 persone vaccinate (con doppia dose) prima del 1 marzo 2020, tra i 60 e gli 80 anni, e mostrano che la percentuale di casi di infezione, nel gruppo ricevente la dose booster, era inferiore di un fattore 11,3 rispetto al gruppo dei vaccinati con doppia dose . Anche l’insorgenza di malattia severa risulta di 19,5 volte inferiore nel gruppo ricevente la terza dose rispetto al gruppo dei vaccinati con doppia dose. Quest’ultimo è il dato che da un punto di vista sanitario ricopre il maggior peso: una diminuzione di 20 volte del rischio di sviluppare malattia severa significa alleggerire notevolmente il carico ospedaliero di malati Covid e consentire al Paese di non dover ricorrere a nuovi lockdown.
Se guardiamo a fasce di età inferiore i dati sono ancora migliori. Un altro studio pubblicato su Lancet il mese scorso ha considerato 1.158.269 persone con età media di 52 anni ed ha dimostrato come una dose booster di vaccino Comirnaty protegga al 93% dall’ospedalizzazione, al 92% dalla malattia severa e all’81% dalla morte.

Il Regno Unito, che da luglio a ottobre di quest’anno ha contato 3 milioni di nuovi contagiati, come nel periodo del lockdown più severo degli ultimi mesi del 2020, ha dato l’avvio alla somministrazione di dosi booster il 16 settembre. È tuttavia da notare come, a fronte di un considerevole numero di contagi – circa 35.000 al giorno – da luglio a ottobre 2020 i ricoveri ospedalieri si siano assestati a 75.000, contro i 185.000 dello stesso periodo dell’anno precedente. Inoltre, nonostante la Gran Bretagna superi di un fattore 3 il numero di contagi degli U.S.A. (considerando la differenza nel numero dei cittadini), il numero dei morti è 1/3. Questo dato è da rapportare al basso tasso di vaccinazione complessivo negli U.S.A. che sfiora appena il 60% a causa delle differenze nelle campagne vaccinali tra Stato e Stato. Attualmente, nel Regno Unito la curva dei contagi sta lentamente flettendo. Quanto questo sia dovuto alla somministrazione di terze dosi o ad un appiattimento fisiologico della cura epidemica dopo aver raggiunto il suo picco è presto per dirlo. Per certo, sappiamo che in Israele la somministrazione di dosi booster ha avuto un peso nel controllare di nuovo la diffusione del virus (figura 1).

Figura 1. Curva dei contagi in Israele a partire dal 1° marzo 2020, su base settimanale. La freccia rossa indica l’inizio della somministrazione di terze dosi alla popolazione. La freccia blu indica lo stato dei contagi al 9 novembre ultimo scorso.

A fronte di questi dati e per prevenire una forte risalita di contagi anche in Italia, oramai da tempo, si è dato l’avvio alla somministrazione delle terze dosi.

Quale vaccino?

In Italia, i cittadini hanno ricevuto uno tra i 4 vaccini approvati dall’EMA: Vaxzevria, Comirnaty, Spikevax e il vaccino Ad26.CoV2.S (Johnson & Johnson). L’Europa non ha rinnovato, per problemi di ritardo nelle forniture, il contratto con Astra Zeneca (Vaxzevria) e, di fatto, nel nostro Paese, la disponibilità di terze dosi è fornita dai soli vaccini a mRNA, Comirnaty e Spikevax.
Nella campagna per la terza dose ricorre spesso la domanda se sia sicuro, per chi ha ricevuto nel precedente ciclo vaccinale un vaccino a vettore adenovirale (Vaxzevria e e Ad26.CoV2.S), fare un richiamo con un vaccino diverso. La risposta è decisamente sì. Sono, anche questa volta i dati pubblicati a fornirci le basi scientifiche di questa affermazione. Due studi, ambedue pubblicati sulla rivista Nature Medicine (1° studio2° studio), avevano già riportato l’efficacia e buona tollerabilità della cosiddetta vaccinazione eterologa (in cui si somministra un vaccino con la prima dose e uno diverso nella seconda). In questo caso, lo specifichiamo, si trattava di un vero ciclo completo vaccinale “misto”.
Ora, un lavoro al vaglio dei revisori, conferma gli esiti positivi anche per la terza dose eterologa: i dati provengono da un trial clinico statunitense che ha coinvolto 10 centri e 458 individui immunizzati con ciclo completo con i tre vaccini approvati dall’FDA, Comirnaty, Spikevax, Ad26.CoV2.S, almeno 12 settimane prima della dose booster eterologa (rispetto al booster omologo nel gruppo di controllo). I risultati hanno mostrato alta tollerabilità, con effetti collaterali sovrapponibili, per intensità e tipologia, a quelli delle 2 precedenti somministrazioni. In più, la terza dose eterologa si è dimostrata più efficace nell’indurre la produzione di anticorpi neutralizzanti rispetto ad una terza dose omologa, con una risposta neutralizzante 4 volte più efficiente in coloro che avessero ricevuto il vaccino Ad26.CoV2.S nel primo ciclo ed un vaccino ad mRNA come dose booster.
Inoltre, è in corso il trial britannico CoVBOOST che prevede l’analisi di 2.886 individui a cui è stata somministrata una terza dose a partire da giugno, 10-12 settimane dopo il completamento del primo ciclo vaccinale. I partecipanti verranno seguiti nella risposta anticorpale per 28, 84, 308 e 365 giorni. I vaccini utilizzati in questo trial sono: Vaxzevria, Comirnaty, Spikevax, Novavax, Valneva (il primo vaccino inattivato europeo), Ad26.CoV2.S, in varie combinazioni, e come gruppo di controllo il vaccino contro la meningite. I primi dati sono attesi a breve.

L’ “affaire Moderna”: dose intera o metà dose?

Di recente, l’AIFA è stata criticata, anche in alcune trasmissioni televisive, per la scelta di somministrare un’intera dose booster di Spikevax (100 microgrammi) anziché la dose di 50 microgrammi consigliata dalla stessa casa produttrice. Tale critica non ha ragione di essere, per i motivi che ora spieghiamo. La dose di 100 microgrammi di Spikevax è quella che, in base a studi sia preclinici che di fase 1, aveva dato la miglior risposta immunologica. Il dosaggio di 100 microgrammi è quindi stato autorizzato da tutti gli enti che vigilano sui farmaci. Alcune nazioni, travolte dall’ondata di contagi estiva trainata dalla variante delta, hanno quindi iniziato spontaneamente tra agosto e settembre 2021 (Israele a fine luglio, seguita da Francia il 1° settembre, poi Germania e Italia) a somministrare una terza dose intera di Spikevax.
Il 13 agosto, l’FDA autorizza l’uso di 100 microgrammi di Spikevax come terza dose per individui immunocompromessi di 18 anni o più. Riportiamo qui lo studio che ha portato all’ autorizzazione.
Quindi Spikevax è stato ampiamente utilizzato negli USA come terza dose a dosaggio pieno.
Solo il 9 settembre, Moderna ha presentato nuovi studi per l’autorizzazione del vaccino a metà dose (50 microgrammi) per i bambini dai 6 agli 11 anni e per la terza dose nei soggetti immunocompetenti.

Le ragioni di questi nuovi studi sono state:

  • Stabilire una dose ottimale efficace come booster
  • Dosi booster a dosaggio inferiore rispetto a quanto somministrato nel primo ciclo si sono mostrate efficaci nel riattivare la memoria immunitaria
  • Risparmiare dosi aumenta la disponibilità di vaccino da distribuire a livello globale

Certamente, queste appaiono tutte ragioni dettate dal buon senso.
Il CDC statunitense ha poi stabilito che individui immunocompromessi in maniera moderata o severa debbano ricevere una dose intera di Spikevax a partire dal 28° giorno dopo la somministrazione della seconda dose.
Il 27 settembre, il nostro Ministero della Salute stabilisce la somministrazione di una terza dose per i soggetti immunocompromessi e per gli ultraottantenni, sia con Comirnaty (30 microgrammi, dose intera) che Spikevax (100 microgrammi), proprio come già in uso negli USA ed in altre nazioni. Nulla di sbagliato, dunque.

Ma c’è un rischio di avere effetti collaterali maggiori con una dose intera di Spikevax come terza dose? La risposta è no. Già negli studi di fase 1, che in un trial clinico attestano la sicurezza e tollerabilità di qualunque farmaco, gli effetti collaterali ai diversi dosaggi (da 25 a 250 microgrammi) erano praticamente sovrapponibili. Inoltre, la documentazione con cui Moderna ha chiesto l’autorizzazione alla metà dose per la dose booster il 21 ottobre alla FDA riporta che metà dose di Spikevax non presenta nessuna particolare differenza negli effetti collaterali rispetto alla dose intera. Pertanto, il 27 settembre, con la circolare n. 0043604, AIFA non ha sbagliato nello stabilire la dose intera di Spikevax come terza dose, in quanto era, allora, l’unica autorizzata.

L’apparente contraddizione della durata del Green Pass

Un punto abbastanza spinoso della discussione politica e sociale, oltre che scientifica, riguarda la durata del Green Pass, allo scopo di evitare il collasso del sistema sanitario. In Italia come sappiamo il Green Pass è necessario anche per svolgere la propria attività lavorativa, oltre che di svago (molti Paesi europei si stanno allineando a questa misura stringente in virtù della ripresa dei contagi). In particolare, molti non ravvisano l’evidenza scientifica per un’estensione del Green Pass a 12 mesi quando, lo abbiamo detto sopra, la risposta dei nostri anticorpi dopo 6 mesi sembra decadere.
Tuttavia, se è vero che il livello dei nostri anticorpi contro il SARS-CoV-2 si abbatte nel tempo, la nostra immunità non dipende solo da essi. In un bellissimo lavoro recentemente pubblicato su Science Immunology si dimostra che la risposta cellulo-mediata al SARS-CoV-2 è molto efficace e addirittura più precoce della risposta anticorpale. Questa risposta è anche duratura, per tutto il tempo in cui sono stati analizzati gli individui vaccinati (71 tra operatori sanitari e scienziati vaccinati con doppia dose di Comirnaty, almeno fino a 6 mesi). Le indagini sull’immunità cellulare sono svolte a scopo di ricerca, ed estendere test del genere all’intera popolazione sarebbe impensabile per gli alti costi. Tuttavia, la scienza ci dice che queste cellule di memoria possono persistere per tutta la vita. Quindi, la decisione del governo di estendere a 12 mesi il Green Pass non è del tutto infondata da un punto di vista scientifico. È senz’altro una decisione essenzialmente politica, in quanto una durata inferiore della durata del Green Pass avrebbe messo lo Stato di fronte all’impresa di gestire un numero di terze dosi enorme, con Green Pass in scadenza e milioni di persone che non avrebbero più potuto lavorare. Pertanto, è apparso logico mettere in sicurezza in prima battuta con la terza dose le categorie più a rischio (anziani, persone clinicamente fragili e operatori sanitari molto esposti), poiché individui vaccinati sani e immunocompetenti molto difficilmente graveranno sugli ospedali, anche se contagiati. Il governo ha annunciato l’apertura delle somministrazioni delle terze dosi alla fascia 40-60 anni di età dal prossimo dicembre. Pertanto, dal momento che i cittadini italiani in quella fascia di età hanno iniziato ad essere immunizzati da marzo 2021, è probabile che il Green Pass verrà rinnovato a buona parte della popolazione ricevente la terza dose prima della sua scadenza naturale (per gli over 60 vaccinati con terza dose è già stato di fatto rinnovato).

Conclusioni

Da quanto emerso da questo breve excursus, la terza dose di vaccino appare necessaria per contrastare l’avanzata di un virus ancora molto presente, con caratteristiche di contagiosità più elevate rispetto al ceppo originario del 2019. Sarà sufficiente? Forse no. Dobbiamo continuare ad utilizzare quelle misure di mitigazione (uso della mascherina e distanziamento) che insieme al vaccino costituiscono un’arma fondamentale per la tutela della salute pubblica. I dati che provengono dai Paesi che hanno abbandonato ogni misura di contenimento – il Regno Unito su tutti – ce lo confermano. Se dovremo eseguire richiami periodici, come per l’influenza, se solo alcune categorie di persone vi si dovranno sottoporre, è ancora troppo presto per dirlo. La scienza ha bisogno di tempo per dare risposte e, finora, ha reagito con eccezionale rapidità ad ogni nuovo gradino in questa pandemia, mettendo in campo tutti gli avanzamenti tecnologici, le risorse e le conoscenze disponibili. Perché la scienza non vuole fornire verità ad ogni costo, ma le migliori risposte possibili a problemi biologici.