Diritti e Doveri

Via libera al primo suicidio assistito in Italia

“Mario libero di scegliere il suo fine vita”


Di Marianna Rillo, ufficio legale Club Medici.

Mario (nome di fantasia), è il primo paziente ad aver ottenuto il via libera al suicidio assistito in Italia, come disciplinato nella sentenza Cappato – Dj Fabo emessa dalla Corte Costituzionale nel 2019.
Paralizzato dalle spalle ai piedi da 11 anni a causa di un incidente stradale, non riconosce più la sua vita come dignitosa, e nell’agosto del 2020 ha ottenuto dalla Svizzera l’autorizzazione per andare a morire lì, dove il suicidio medicalmente assistito è consentito. Ma Mario vuole essere libero di scegliere dove porre fine alla sua vita, ormai fatta di sole sofferenze. Ha così scelto di seguire l’iter indicato dalla Corte Costituzione, chiedendo all’azienda ospedaliera locale di verificare le sue condizioni di salute per poter accedere, legalmente in Italia, a un farmaco letale il Triopentone sodico.
L’ASL marchigiana inizialmente ha respinto la richiesta di Mario, senza attivare le procedure indicate dalla sentenza della Corte Costituzionale, secondo cui il suicidio assistito è possibili se sussistono quattro condizioni:

  1. se il paziente è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale;
  2. se è affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili;
  3. se è pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli;
  4. se non è sua intenzione avvalersi di altri trattamenti sanitari per il dolore e la sedazione profonda.

L’ASL avrebbe dovuto verificare queste condizioni, ma si è rifiutata di farlo e dopo la lunghissima inerzia dell’Azienda sanitaria regionale (Asur), che a fine agosto ha portato Mario a denunciare la struttura per omissione d’atti d’ufficio e mettere in mora il Ministro della Salute Speranza e il Ministro della Giustizia Cartabia, chiedendo loro di “ripristinare la legalità violata”, è arrivata la prima decisiva vittoria. Mario ha ottenuto il via libera dal Comitato Etico dell’azienda, un organismo indipendente formato da medici e psicologi che ha la responsabilità di garantire la tutela dei diritti dei pazienti, che ha verificato la sussistenza delle condizioni per l’accesso al suicidio assistito.
Resta però da indicare il dettaglio delle modalità di auto-somministrazione del farmaco. A tal riguardo il Comitato esprime una serie di dubbi sia quanto alle modalità, quanto alla dose di Triopentone da somministrare. Questo potrebbe portare ad un serio rallentamento nelle procedure per Mario, ma l’uomo si dice fiducioso e finalmente libero. Mario infatti una volta definiti, con chi di competenza, questi ultimi aspetti, potrà scegliere quando morire e potrà farlo nella sua casa, al fianco della madre e delle persone che tanto gli sono state accanto in tutti questi lunghi anni, sapendo che potrà cambiare idea anche all’ultimo istante, perchè soltanto lui può auto-somministrarsi il farmaco letale dal momento che non sarà consentito l’intervento di nessun medico.
Mario potrà semplicemente bere il liquido da un bicchiere, usando una cannuccia, oppure spingere un pulsante, mettendo in circolo il farmaco per via endovenosa. Nessuno potrà somministrarglielo, in quel caso sarebbe eutanasia e quel qualcuno verrebbe incriminato per il reato di omicidio del consenziente.

Per quanto le due pratiche siano accomunate dalla volontarietà della richiesta e dall’esito finale, ci sono almeno due sostanziali differenze tra eutanasia e suicidio assistito:

  • l’eutanasia non necessita della partecipazione attiva del soggetto che ne fa richiesta, mentre il suicidio assistito sì, perché prevede che la persona malata assuma in modo indipendente il farmaco letale;
  • l’eutanasia richiede un’azione diretta di un medico, che somministra un farmaco di regola per via endovenosa, mentre il suicidio assistito prevede che il ruolo del sanitario si limiti alla preparazione del farmaco che poi il paziente assumerà per conto proprio.

In entrambi i casi, queste richieste vengono sottoposte alla valutazione di commissioni di esperti e al parere di più medici, diversi da quelli che hanno in cura il paziente. Solo dopo un’accurata analisi delle sue condizioni cliniche, della compromissione della qualità della sua vita e della sua piena libertà decisionale, gli viene data la possibilità di accedere agli interventi.

Distinguiamo inoltre ipotesi di eutanasia attiva (quella di cui sopra), da quella passiva (consentita in Italia). Questo è il caso del personale sanitario che si limita a interrompere i trattamenti salva vita. Qui non è la condizione patologica a far morire il paziente, ma l’omissione di un sostentamento ordinario. La sospensione delle cure è un diritto sancito dall’art. 1 della legge n.219 del 2017, che stabilisce “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”.

Le due fattispecie, inoltre si differenziano anche in ottica normativa.

Riferimenti normativi

In Italia praticare l’eutanasia attiva costituisce un reato. Il codice penale stabilisce che sono reati tanto l’eutanasia attiva(omicidio del consenziente, art. 579), quanto l’istigazione al suicidio o aiuto al suicidio (art. 580). Al contrario il suicidio assistito, invece è legittimato, ma non praticato.
La sentenza n.242 del 2019 della Corte Costituzionale, intervenuta nel procedimento a carico di Marco Cappato nel caso del dj Fabiano Antoniani, ha deliberato che il suicidio assistito, inteso come assistenza di terzi nel porre fine alla vita di una persona malata, è legittimo quando posto in essere in presenza delle quattro condizioni di cui sopra. In queste ipotesi la persona che aiuta al suicidio non è punibile.
Invece nei casi di eutanasia passiva la condotta risulta punibile penalmente solo se sia rinvenibile, in capo al medico, un obbligo di cura, che viene meno solo nel caso in cui il paziente rifiuti il trattamento sanitario. Spesso, infatti, si tende a confondere la possibilità di rifiuto dell’accanimento terapeutico con la vera e propria eutanasia attiva. Confusione che ha portato recentemente anche la giurisprudenza di legittimità a sancire il principio secondo cui il rifiuto alle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per una ipotesi di eutanasia attiva, esprimendo piuttosto un atteggiamento di scelta che la malattia segua il suo corso naturale.
Quindi a differenza dei casi, si parla di liceità della eutanasia passiva, quanto intesa come rifiuto e divieto di accanimento terapeutico, e di illiceità della stessa quando intesa come abbandono terapeutico da parte del personale sanitario.

Nonostante esistano diverse tipologie di eutanasia, a seconda delle finalità perseguite (eutanasia eugenica: diretta al miglioramento della specie umana; eutanasia profilattica: finalizzata ad evitare il diffondersi di epidemie; eutanasia solidaristica: volta a tutelare la salute della collettività mettendo a disposizione organi da espiantare ecc.) non si può parlare di eutanasia nel caso in cui manchi il consenso del soggetto, dovendo configurarsi in questo caso invece l’omicidio vero e proprio del paziente.

La legge n. 219 del 2017, oltre a disciplinare le modalità di espressione e di revoca del consenso informato, la legittimazione ad esprimerlo e a riceverlo, ha regolamentato anche le Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT), con le quali il dichiarante enuncia i propri orientamenti sul “fine vita” nell’ipotesi in cui sopravvenga una perdita irreversibile della capacità di intendere e di volere.
Il provvedimento è entrato in vigore il 31 gennaio 2018 e il successivo regolamento approvato con decreto 10 dicembre 2019, n. 168 ha disciplinato le modalità di raccolta delle copie delle DAT nella Banca dati nazionale, già istituita dalla legge di bilancio 2018 presso il Ministero della salute. Nel disciplinare le DAT, la legge parte dal presupposto che, in ossequio ai principi della Carta Costituzionale e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sulla tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona, nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero ed informato del soggetto interessato.

Le DAT conosciute comunemente come “testamento biologico” o “bio-testamento”, consistono in scelte che può compiere qualsiasi persona maggiorenne, capace di intendere e di volere. Di conseguenza non saranno in condizione di esprimere validamente le proprie DAT i soggetti interdetti, sprovvisti della capacità di agire, perché riconosciuti in condizioni di abituale infermità di mente, tanto da essere incapaci di provvedere ai propri interessi. Proprio per l’importanza di tali disposizioni in relazione ad un bene fondamentale come la vita, queste devono essere redatte per atto pubblico o scrittura privata autenticata o per scrittura privata consegnata personalmente dal soggetto presso l’ufficio dello Stato Civile del Comune di residenza, il quale provvede all’annotazione in un apposito registro. Sono, inoltre, modificabili, rinnovabili e revocabili in qualsiasi momento.

Le volontà in materia di trattamenti sanitari manifestate mediante le DAT devono essere precedute da adeguate informazioni mediche, così evidenziando la relazione tra medico e paziente e quello che effettivamente è il consenso informato del paziente, del quale peraltro occorre dar conto al momento della redazione delle DAT.

Il medico è tenuto al rispetto delle DAT[1], le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, solo nel caso in cui vi sia un accordo in tal senso tra medico e fiduciario. Questo può avvenire quando le DAT appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla situazione clinica attuale del disponente, ovvero qualora siano emerse delle nuove terapie, non prevedibili al momento della redazione, capaci di offrire delle concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. Il sanitario, infatti, non deve eseguire i desideri del paziente in maniera meccanica ma ha l’obbligo di effettuare una valutazione sulla attualità, anche in relazione ai possibili sviluppi del progresso tecnologico e scientifico in ambito medico che possano essere avvenuti dopo la redazione delle DAT.

Sempre in merito al consenso, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1155[2], ha affermato che per poter parlare di omicidio del consenziente, è necessario che il consenso sia manifestato in maniera seria, esplicita e non equivoca e che detto consenso non abbia riserve e sia, in ultimo, sussistente fino al momento della commissione del fatto, essendo sempre revocabile. Ha poi precisato che le DAT possono essere espresse anche mediante l’utilizzo di videoregistrazione o di dispositivi che consentano al soggetto di comunicare in maniera chiara la propria volontà.

Infine quando il consenso risulta viziato dalla sussistenza di una malattia psichica, non consente di configurare la fattispecie di cui all’art. 579 c.p. ma quella più grave di omicidio doloso.

Conclusioni

Dopo la sentenza Cappato – Dj Fabo emessa dalla Corte Costituzionale, che ha a tutti gli effetti legalizzato il suicidio assistito, nessun malato ha finora potuto beneficiarne, in mancanza di una specifica legge che definisca le procedure.
Cappato[3] sostiene: “È un tortuoso percorso, dovuto anche alla paralisi del Parlamento, che dopo tre anni dalla richiesta della Corte costituzionale non riesce a votare una legge che definisca le procedure di applicazione della sentenza”. Parla poi di “scaricabarile istituzionale” per cui persone come Mario, oltre alle già tante patite sofferenze fisiche e psicologiche, sono costrette anche a sostenere un calvario giudiziario. L’Associazione Coscioni ha appena raccolto e depositato alla Corte di Cassazione 1milione e 240mila firme per il referendum sull’eutanasia attiva che vuole abrogare parzialmente la norma del codice penale che impedisce l’introduzione dell’eutanasia legale in Italia. Cifra che va ben oltre la soglia di firme necessaria (500mila) per la richiesta di una consultazione popolare.
Qualora dovesse essere approvato il referendum, l’eutanasia attiva sarà consentita nelle forme previste dalla legge (relative al consenso informato e al testamento biologico), in presenza dei requisiti introdotti dalla sentenza Cappato – Dj Fabo.
L’eutanasia verrebbe così punita solo nel caso in cui compiuta contro una persona incapace o nel caso di consenso viziato, estorto con violenza, minaccia o contro un minore di diciotto anni.

Si vuole chiudere qui questo excursus, lasciando l’ultima parola a Mario. Protagonista di una storia di coraggio, di forza, di generosità; uno dei simboli di questa lunga battaglia che vuole condurre all’eutanasia legale in Italia.

Mario, che oggi è finalmente libero…

“Si devono mettere da parte ideologismi, ipocrisia, indifferenza, e ognuno si prenda le proprie responsabilità perché si sta giocando sul dolore e le sofferenze di malati e persone fragili”.


[1]Legge n. 219 del 2017, art. 4, comma 5.
[2] Vedi anche Cass. n. 13410.
[3] Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, promotore del Congresso mondiale per la libertà di ricerca e della campagna Eutanasia legale.