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Omicron: preoccupazione, cautela ma niente panico
di BARBARA ILLI e PATRIZIA LAVIA

9 Dicembre 2021


Di Barbara Illi e Patrizia Lavia, Istituto di Biologia e Patologia Molecolari, CNR, Roma

Il nuovo ceppo variante di Sars-cov-2, B.1.1.529, denominato Omicron e definito dalla OMS variant of concern (variante preoccupante) lo scorso 26 Novembre, è stato accolto come una scoperta  traumatica e allarmante, come riporta il tempestivo articolo di Nature pubblicato il giorno seguente.

Da allora le informazioni si susseguono in modo frenetico, ma abbiamo in realtà conoscenze solo parziali: appare chiaro che Omicron è molto trasmissibile (da qui la preoccupazione). Tuttavia, la professoressa di Virologia Penny Moore dell’Università del Witwatersrand, in Sud Africa (Figura 1), una delle prime studiose a isolare e identificare la variante Omicron, e che studia le interazioni tra il virus e l’ospite, ci ricorda che saranno necessarie alcune settimane per completare la caratterizzazione della variante dal punto di vista della risposta immunitaria e degli effetti clinici (qui l’intervista al New York Times del 28 novembre scorso). Gran parte di quanto viene detto al momento, si colloca quindi sul piano delle supposizioni.

Figura 1.
La Prof. Penny Moore, Università del Witwatersrand, Sud Africa, che ha contribuito ad identificare la variante Omicron.

Cerchiamo quindi di riordinare qui le informazioni disponibili e le problematiche ancora aperte, in attesa che siano completati i test necessari per capirne meglio gli effetti, senza eccessivi allarmismi ma anche evitando un ottimismo che sarebbe senza fondamento.

1 – La scoperta

Nel recente periodo si è registrato in Sud Africa un rapido aumento dei contagi del virus Sars-cov-2, agente della COVID-19, particolarmente nel Gauteng, la regione di Johannesburg. Quest’aumento è stato accompagnata dalla scoperta, frutto di un ottimo lavoro di sequenziamento genomico, svolto su 22 casi positivi presso l’Istituto Nazionale delle Malattie Infettive del Sud Africa. Il sequenziamento ha rivelato una nuova variante, appunto denominata Omicron, subito apparsa molto diversa dalle precedenti e ricca di nuove mutazioni, sul cui significato ritorneremo. La variante è stata immediatamente comunicata al resto del mondo il 25 Novembre. Al Sud Africa va dunque riconosciuto che la pronta identificazione e l’immediata condivisione hanno permesso al resto del mondo di prepararsi e dunque di mettersi in sicurezza.

La rapida diffusione di Omicron in Sud Africa, dove era prevalente la variante Delta, già altamente trasmissibile e presente anche da noi, è stata subito considerata allarmante. Secondo il Prof. Tulio de Oliveira, direttore del Centro per la Risposta Epidemica e l’Innovazione, l’avvicendamento tra le varianti indica un vantaggio competitivo di Omicron rispetto a Delta.

Un punto su cui richiamare l’attenzione è che questo vantaggio si è affermato in popolazioni già colpite da un’elevata frequenza di infezioni da HIV/AIDS e tubercolosi. Gran parte dell’allarme è basato sulle dinamiche epidemiologiche dell’Africa australe, ma è opportuno ricordare che l’alta frequenza di infezioni che indeboliscono la risposta immunitaria è parte di queste dinamiche, che non necessariamente saranno valide nel resto del pianeta.

2 – Come si è originata Omicron?

Quel che è certo al momento è che la selezione di nuove varianti avviene immancabilmente in regioni in cui il tasso di vaccinazione è basso e il Sars-Cov-2 ha agio di replicarsi. Questo ci rimanda all’importanza di accelerare il tasso di vaccinazione in tutto il mondo, come ripete l’OMS; illuminante in proposito l’articolo del Financial Times del 1 dicembre scorso a cui sarà utile dedicare un articolo a parte.

In Sud Africa, il più avanzato tra i paesi dell’Africa australe e il secondo del continente, la percentuale della popolazione che ha avuto almeno una dose di vaccino non arriva al 30%.  Nell’intero continente solo il 5% ha ricevuto una doppia dose, secondo l’OMS. In queste condizioni, le varianti sono attese.

In realtà non c’è evidenza che Omicron si sia originata nel Gauteng piuttosto che nel Botswana o in altri paesi confinanti dove la sorveglianza molecolare è veramente molto bassa o nulla. Il Sud Africa ha invece importanti centri di ricerca di ottimo livello, attrezzati per combattere l’HIV ed è quindi il paese che è stato in grado di identificarla molecolarmente.  

Poiché Delta era prevalente (con prevalenza del 95% anche in Sud Africa), estinguendo praticamente ogni altra variante, l’OMS e gli osservatori epidemiologici si aspettavano che qualsiasi nuova variante sarebbe derivata da Delta. La sequenza di Omicron rivela invece un’evoluzione più complessa e inattesa, che sembra discendere da un ceppo minoritario, a sua volta derivato dalla variante beta, comparsa circa un anno fa in Sud-Africa (la famosa variante che si era rivelata resistente agli anticorpi indotti dal vaccino Astra Zeneca), e quasi del tutto scomparsa perché soppiantata appunto da Delta da diversi mesi. Tra le diverse ipotesi, quella al momento più accreditata, tenendo conto di questa discendenza antica, è che Omicron si sia generata, per accumulo di mutazioni, in un paziente affetto da AIDS, che deve avere avuto un COVID persistente generato dalla variante beta, durato almeno 6 mesi. Questa lunga durata è possibile nelle condizioni di grave immunodeficienza associate all’HIV/AIDS. Tragicamente, infatti, a causa dei lockdown e delle restrizioni associate al Covid, l’accesso degli individui positivi all’ HIV e/o affetti da AIDS ai farmaci anti-retrovirali è molto diminuito in diverse nazioni africane. Questo può aver determinato una nefasta combinazione tra il Covid ed una risposta immunitaria poco efficiente nell’individuo contagiato, generando una forte pressione selettiva che ha selezionato un accumulo di mutazioni (oltre 50), originando una variante così divergente.  Questa non è la sola ipotesi; come ricostruisce Science nel suo numero del 2 dicembre,  alcuni pensano ad un passaggio con un accumulo di mutazioni all’interno di una popolazione isolata da cui poi Omicron si sarebbe diffusa; altri, come nel caso di Wuhan, pensano che la variante possa avere avuto un passaggio attraverso un animale e da qui all’uomo

3 – Da quanto tempo circola Omicron?

Forse non riusciremo mai a ricostruire esattamente da quanto tempo Omicron si sia diffusa. I dati dei tamponi molecolari ci dicono però che la diffusione aveva avuto un impulso evidente già da un paio di settimane prima che il sequenziamento la identificasse con previsione. Questo è possibile perché la tecnica della PCR usata per i tamponi molecolari va a rilevare 3 diversi geni del genoma del virus Sars-cov-2.  Nel caso di Omicron – come già si era verificato per la variante alfa (ma non di delta) – alcune mutazioni rendono non più identificabile il gene S, mentre gli altri due continuano ad essere ben rilevabili. Ora che disponiamo della sequenza di Omicron e conosciamo la posizione delle mutazioni, capiamo che l’osservazione di positività per due geni sui tre analizzati (il cosiddetto S gene dropout) può retrospettivamente essere ricondotta a Omicron, mentre un tampone positivo per 3 geni su 3 indica Delta. Il monitoraggio tra i due profili molecolari ha rivelato che Omicron si è diffusa in breve tempo già da alcune settimane ed è in rapida crescita (a discapito di Delta) non solo nel Gauteng ma anche altrove.

4 – Che cosa comportano le nuove mutazioni della variante Omicron?

La sequenza della variante ha rivelato un numero eccezionalmente alto di mutazioni, circa 50, di cui oltre 30 cadono nella proteina Spike, usata dal virus per “attaccare” il recettore umano ACE2 ed entrare nelle cellule epiteliali dell’apparato respiratorio, che, come sappiamo, è anche l’antigene usato nei vaccini per indurre la risposta anticorpale.

Le nuove mutazioni di Omicron non sono uniformemente distribuite, ma si concentrano in alcuni “hot spots”, come si vede in Figura 2, che alterano le proprietà funzionali.  

Figura 2.
Posizione delle mutazioni identificate nelle proteine del ceppo
B.1.1.529 (variante Omicron) di Sars-Cov-2.
Mappa gentilmente fornita da GeneTex
  • Il Receptor-Binding Domain (RBD, in blu in Figura 2), cioè la regione che attacca il recettore ACE2, concentra molte delle mutazioni intervenute in Omicron; la posizione di queste mutazioni nella struttura tridimensionale di Spike è rappresentata in Figura 3. In particolare, le mutazioni K417N (condivisa con Beta), T478K (condivisa con Delta), N501Y (condivisa con Alfa, Beta e Gamma), ed alcune altre che modificano aminoacidi implicati nel legame con ACE2, possono conferire alla Spike di Omicron delle mutate capacità di legame, rendendola più affine ad ACE2. Queste mutazioni possono dunque causare una maggior velocità di contagio: miglior capacità di legare ACE2 “in entrata”.
  • Un gruppo di mutazioni, in particolare la P681H, cadono in una zona di taglio per alcune proteasi, tra cui la furina, che “tagliano” Spike e consentono l’ingresso al virus nelle cellule. Questo potrebbe avere implicazioni per l’infettività del ceppo ed anche per l’alterazione di alcuni epitopi, che potrebbero non essere visibili al sistema immunitario. Nella Figura 3, la mutazione P681H si trova esposta all’esterno di Spike.
  • Un altro gruppo di mutazioni è concentrato nel dominio aminoterminale di Spike (NTD, N-terminal domain) e questo causa grande allarme perché mutazioni, proprio in questo dominio potrebbero, a priori, indebolire la capacità inattivante degli anticorpi, in quanto potrebbero cambiare la conformazione della proteina.
Figura 3.
La struttura 3D prevista per la variante Omicron. In verde è indicata la regione aminoterminale (NTD), in cui cadono mutazioni importanti per il riconoscimento anticorpale. In blu sono cerchiate mutazioni ritenute importanti per il legame al recettore umano ACE2, che permette l’ingresso nelle cellule dell’epitelio respiratorio. In rosso, una mutazione potenzialmente importante per l’infettività.
Modello gentilmente concesso da GeneTex

5 – Conseguenze immunologiche e cliniche

Questo sarà il più breve paragrafo di questo articolo e si potrebbe riassumere in poche parole: non sono ancora conosciute. Infatti, a fronte di un’aumentata trasmissibilità documentata in Sud Africa con dati certi, come abbiamo visto, ottenuti dai tamponi molecolari e dal sequenziamento, i dati sulle conseguenze sono scarsi.

Il 4 Dicembre, Il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie riporta 167 casi di individui infettati da Omicron in Europa, specificamente:  Austria (10), Belgio (6), Repubblica Ceca (1), Danimarca (18), Finlandia (1), Francia (12), Germania (15), Grecia (1), Islanda (7), Irlanda (1), Italia (9), Lussemburgo (1), Paesi Bassi (18), Norvegia (19), Portogallo (34), Spagna (7), Svezia (7) (). La stessa EMA asserisce che il piccolo numero di casi finora registrato non consente di definire esattamente lo spettro clinico di Omicron, che finora si è mostrato asintomatico o lieve.

Risposta immunitaria
L’allarme su un diminuito riconoscimento da parte degli anticorpi viene soprattutto dalle predizioni basate sui modelli in Figura 3. In realtà, tutti i (pochi) casi di Omicron identificati in persone vaccinate suggerirebbero che Moderna e Pfizer possano ancora conferire protezione da questa variante (Astra Zeneca non era efficace nei confronti di Beta ed è probabile che non lo sia neanche nei confronti di Omicron. Ricordiamo che l’Europa ha sospeso le forniture di Astra Zeneca). Sono in corso esperimenti per verificare se, e in che misura, Omicron evada l’immunità anticorpale conferita dai vaccini o conferita ai guariti da altri ceppi di Sars-Cov-2 come il Delta.  Tuttavia, sempre Penny Moore ritiene che l’immunità cellulare, conferita dai linfociti T, con ogni probabilità potrebbe essere ancora efficace, perché questa risposta dipende da una serie di epitopi più ampia, ed è dunque meno sensibile alle mutazioni.

Sintomi a patologia
Ad oggi, la dott.ssa Angelique Coetzee presidentessa dell’associazione dei medici sudafricani (AMSA), ed autrice della prima segnalazione di casi contagiati da Omicron, ha dichiarato: “Probabilmente è altamente trasmissibile, ma i casi che stiamo vedendo sono molto lievi. Può darsi che fra due settimane, avrò un’opinione diversa, ma questo è quel che stiamo vedendo”. Anche Hong Kong, Israele e Italia, per ora, hanno segnalato casi asintomatici. Queste notizie sarebbero confortanti. Tuttavia, si tratta veramente di pochi casi per trarre conclusioni sulla patogenicità.

6 – La sorpresa traumatica, l’allarme, misure emotive e misure efficaci

Appena i centri di ricerca Sudafricani hanno resa nota la variante, si è scatenata una reazione globale di estremo allarme, sono stati sospesi i voli da diversi paesi africani verso l’Europa e gli USA, e c’è stato perfino un temporaneo crollo delle borse per timore di ripercussioni sull’economia che hanno agitato gli animi. Ma Omicron aveva comunque già viaggiato in diverse parti del mondo, compreso il nostro paese. La storia è ben ricostruita dal Washington Post in un articolo pubblicato il 2 dicembre da Adam Taylor e Sammy Westfall di cui riportiamo alcuni stralci: “Mentre l’aereo KL592 era in volo tra Johannesburg e Amsterdam venerdì 26 novembre, le regole della pandemia sono cambiate. La diffusione di una nuova variante allarmante, segnalata dal Sudafrica, aveva indotto una brusca rivalutazione dei rischi dei viaggi internazionali. I Paesi Bassi hanno vietato l’ingresso ai viaggiatori provenienti dall’Africa australe; improvvisamente, i passeggeri a bordo del KL592 erano persona non grata.  Il governo olandese stava seguendo un istinto, poi ripreso da più di 30 nazioni: chiudendo i viaggi dall’Africa del Sud, sperava di tenere fuori la nuova variante, ma questa misura era ormai inutile. Da un lato, non solo il caos generato sul volo KL592 e su un altro volo KLM, è praticamente diventato un incubatore per la diffusione la variante, ma, d’altro lato, è emerso di lì a breve che il virus era già presente nei Paesi Bassi. Infatti, le autorità sanitarie olandesi, avendo riesaminato dati di sequenziamento genetico, hanno rilevato la variante Omicron in due campioni raccolti diversi giorni prima che il Sudafrica lanciasse l’allarme (precisamente il 19 e il 23 novembre). E gli olandesi non sono stati i soli: anche il Center for Disease Control and Prevention (CDC) Americano ha poi rintracciato il suo primo caso di Omicron in un abitante della California rientrato dal Sud Africa il 22 novembre. Particolarmente emotiva è apparsa la reazione del Regno Unito, che ha rapidamente imposto un divieto sui voli dai paesi dell’Africa australe, mentre al contrario, quando stava definendo un suo accordo commerciale con l’India, aveva mantenuto i voli aperti con l’India durante l’esplosione della prima variante veloce, la Delta, originata appunto in India e che poi ha preso il sopravvento ovunque”.

Le soppressioni dei voli e le chiusure dei confini appaiono dunque inutili a questo stadio, letteralmente parafrasando il famoso proverbio secondo cui è inutile chiudere la stalla dopo che sono scappati i buoi. Casi di Omicron sono infatti già identificati in Israele, Francia, Regno Unito, Bruxelles, Giappone. Hong Kong e anche in Italia. Questi casi forniscono un duplice insegnamento:

  • da un lato, come abbiamo visto sopra, dimostrano che la sintomatologia associata ad Omicron è molto lieve nei vaccinati;
  • d’altro lato, indicano chiaramente che la priorità è garantire la protezione dal contagio qui ed ora che Omicron è già arrivata. Per questo appare più che mai necessario applicare sempre le misure di contenimento: distanza fisica, mascherina, ed accelerazione delle terze dosi poiché queste sono risultate protettive

Conclude il Washington Post: alla luce delle molte cose che non sappiamo ancora, la prudenza appare una strategia più saggia del panico.  Non possiamo che essere d’accordo.

7 – Un aggiornamento del 9 dicembre sulla risposta dei vaccini alla variante Omicron.

L’8 dicembre Pfizer e Biontech (la spin-off degli inventori del vaccino prodotto e commercializzato da Pfizer) ha tenuto una conferenza stampa in cui ha illustrato che la variante Omicron diminuisce l’efficacia dei vaccini somministrati in due dosi, ma la terza dose “booster” riattiva una risposta anticorpale efficace.
Tre studi in preprint (non revisionati) riportano dati iniziali della risposta anticorpale a Omicron, tutti ovviamente su piccoli numeri dato il poco tempo trascorso dall’identificazione di Omicron. Le prossime 2 o 3 settimane saranno fondamentali per confermare.
Questi dati iniziali sono una buona notizia, che presumibilmente si applicherà anche al vaccino di Moderna, che agisce con un principio simile e induce anticorpi che finora hanno sempre dimostrato la stessa specificità degli anticorpi indotti da Pfizer.
Ricordiamo inoltre che, in ogni caso, oltre alla risposta anticorpale, è al lavoro anche l’immunità cellulare (linfociti T), più duratura rispetto agli anticorpi, il cui contributo nella risposta a Omicron non è ancora possibile valutare.

A questo punto, una piccola osservazione sul ruolo della stampa. Alla conferenza stampa di Pfizer erano ovviamente presenti tutte le principali testate. Il primo report, pubblicato dal Washington Post, sottolinea fin dal titolo il potenziale della terza dose (titolo dell’articolo: Studi preliminari dimostrano che Omicron è una variante formidabile, ma non inarrestabile).

Esce il 9 dicembre il report di Nature. Il testo conferma che in effetti la terza dose ripristina un titolo anticorpale sufficiente per essere efficace. Ma, mentre il titolo del WP enfatizzava il potenziale della terza dose, il titolo di Nature sembra a prima vista negarlo (“Omicron indebolisce la risposta anticorpale”, salvo poi aggiungere nel sottotitolo in carattere più piccolo “ma la terza dose la ripristina”). Persino Nature cade nella dannazione dei titoli a effetto?! Sarebbe deleterio, visto il crescente numero di persone che si fermano alla lettura dei soli titoli di giornale, anche via cellulare, sms, tweet etc., e che non hanno tempo o disponibilità a leggere e confrontare i testi per esteso. Questo tipo di titoli che prediligono un tono non neutro generano confusione nel pubblico, e purtroppo questo poi se la prende con la massa indistinta degli “scienziati”, accusandoli di essere confusi e mettendo nello stesso calderone ricercatori, medici, amministratori delegati di industrie farmaceutiche, consiglieri scientifici dei governi e giornalisti scientifici.

Noi attendiamo come sempre la conferma dei dati.