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La prevenzione: psicosi e recovery
di MASSIMO LANZARO

27 Aprile 2022

Di Massimo Lanzaro, medico, psichiatra, psicoterapeuta e neuroscientista – è stato Primario e Lecturer al Royal Free Hospital di Londra, Direttore Sanitario in Italia e in Inghilterra, didatta con il Centro per la prevenzione delle psicosi UNIMORE/AUSL RE.

PARTE TEORICO CLINICA

Introduzione

La possibilità di prevenire l’insorgenza della schizofrenia intervenendo nelle fasi prodromiche della psicosi è stata postulata per decenni. Già nel 1927, Harry Stack Sullivan affermava: “Sono certo che molti casi incipienti potrebbero essere arrestati prima che l’efficiente contatto con la realtà sia completamente perso (…) gli psichiatri vedono troppi casi terminali e trattano, nel corso della loro vita professionale, con troppo pochi pre-psicotici”.

Dopo quasi un secolo il nuovo Rapporto “Health at a Glance: Europe 2018” dell’Ocse per l’Europa chiede esplicitamente un approccio preventivo alle malattie mentali che non solo hanno deleterie conseguenze sociali, ma costano più del 4% del Pil in tutta l’Ue (1).

Di recente, più di un opinion leader ha postulato il parallelo tra psichiatria e oncologia, dove per quanto concerne le cause di malattia emergono fattori di rischio e fattori protettivi, piuttosto che nelle branche della medicina dove c’è un unico ben identificato fattore eziopatogenetico, come le malattie infettive. Patrick McGorry (2) nota che, nonostante la simile efficacia dei trattamenti in oncologia e anche in cardiologia negli ultimi decenni non si è verificato in psichiatria un miglioramento della morbilità e della mortalità come invece per le condizioni cardiologiche e le neoplasie. Perché? Non sono stati scoperti nuovi trattamenti rivoluzionari in oncologia e in cardiologia e i nostri trattamenti sono tanto efficaci quanto i loro (come dimostrano varie autorevoli metanalisi, ad esempio i lavori di Leucht). Il motivo è verosimilmente che nelle altre specialità mediche si sono implementati interventi preventivi tendenzialmente più mirati e invece in psichiatria abbiamo delle difficoltà (legate allo stigma, alla disinformazione, allo scetticismo nei confronti dei servizi, a volte alla scarsa formazione). Non solo: gli interventi degli oncologi e dei cardiologi sono generalmente basati su effettive competenze tecniche (che consentono la reale coincidenza di efficacy ed effectiveness).

Nature, all’inizio del 2010 pubblicava un editoriale dal titolo “Un decennio per i disturbi psichiatrici” (3) in cui l’estensore, richiamando il fatto che il trattamento delle psicosi non affettive è alla soglia di radicali cambiamenti, affermava che l’individuazione precoce e una più chiara comprensione dei fattori ambientali possono permettere la prevenzione dei disturbi psichiatrici. Si è da tempo aperta una sfida scientifica e clinica, di alto spessore etico, giocata anche su un terreno culturale che dovrebbe essere ormai meno improntato alla rassegnazione e più alla speranza e all’ottimismo, ingredienti indispensabili per un’azione che non può essere ridotta al semplice “fare prima” e “fare meglio” ma che richiede anche appassionata e competente partecipazione.

Finché si parla di disturbi mentali conclamati (prevenzione terziaria), esiste un ampio consenso interventista tra gli addetti ai lavori. Se però il significato dell’espressione riconoscimento e intervento precoce viene esteso a comprendere la fase prepsicotica o le forme subsindromiche (prevenzione secondaria), il consenso unanime viene meno. Anche una recente revisione del Cochrane Database (5) raccomanda dopo l’esordio un engagement tempestivo, fase specifico, preferibilmente implementato da team specializzati in interventi precoci, pur riconoscendone alcuni limiti.

È a questo che ci si limita nel presente capitolo: si farà riferimento marginale agli stati mentali a rischio, su cui tanto si può trovare in letteratura. Del resto il dibattito sulle fasi prodromiche ha oggi come principale punto di riferimento la nuova categoria diagnostica denominata Attenuated Psychotic Syndrome inserita nel DSM 5 nella sezione 3 (disturbi che necessitano di ulteriori studi).

Tuttavia, se consideriamo la psicosi non come una entità dicotomica, ma come un continuum di esperienze, vediamo la coerenza con le forti evidenze riguardanti l’importanza, oltre che dei fattori biologici, di quelli psicosociali nell’indirizzare il percorso della singola persona all’interno di questo continuum. E’ il presupposto teorico del modello a stadi, che tiene conto della progressione di un disturbo e di dove la persona si trova in un determinato momento lungo il continuum del corso della malattia. Il modello è bidirezionale, di modo che il disturbo può non soltanto progredire, ma anche recedere e rimettere totalmente, spesso stabilmente, sotto l’influenza di variabili biologiche, ambientali e terapeutiche. Esso permettere di superare l’arbitraria e rigida dicotomia tra prevenzione secondaria e prevenzione terziaria e di pensare diversamente la cosiddetta “incertezza diagnostica” (4).

La Durata di Psicosi non trattata

Nell’ultimo ventennio sono state condotte molte ricerche sulla durata di psicosi non trattata (DUP), il periodo durante il quale la sintomatologia è presente ma non viene attivato alcun intervento. La DUP nei paesi occidentali è stimata intorno a circa 55 settimane nei maschi e 53 nelle femmine. In una revisione pubblicata su Encephale nel 2016 (6) la DUP era addirittura calcolata intorno a due anni: si tratta di pazienti che restano malati, il che esita anche in un peggioramento dell’outcome a medio e lungo termine.

Sui fattori che ritardano la diagnosi dei disturbi mentali esiste un’ampia mole di lavori che ruotano essenzialmente attorno a quattro temi: l’interpretazione errata dei sintomi da parte dei familiari o dei medici di base, la paura della reazione sociale alla diagnosi o all’inizio del trattamento, la sfiducia negli interventi forniti dai servizi psichiatrici, la carenza e la scarsa accessibilità di questi ultimi (6). Un valido progetto di prevenzione terziaria dovrebbe pertanto partire dalla diffusione d’informazioni sulla possibilità d’individuazione precoce e promuovere con azioni coordinate lo sviluppo d’interventi mirati, orientati al “recovery” e non stigmatizzanti.

Il panorama internazionale

Sulla scia del pionieristico lavoro di McGlashan, McGorry e del gruppo di Melbourne, in diverse nazioni sono nati centri per il riconoscimento e l’intervento precoce nelle psicosi e sono stati proposti numerosi modelli per migliorare gli standard dell’intervento (Yung et al 1996). Alcuni di quesi sono incentrati sugli stati a rischio, con l’intento di intervenire prima che la psicosi si sviluppi (ad esempio il Servizio Oasis – Outreach and Support in South London). Negli ultimi trenta anni in numerosi paesi tuttavia sono stati realizzati Servizi specializzati in interventi tempestivi, con l’obiettivo di iniziare il trattamento il prima possibile dopo il primo episodio psicotico. Tra questi ricordiamo: il progetto TIPS in Norvegia e Danimarca (Larsen et. Al, 2006), l’EPPIC A Melbourne in Australia, gli EIS inglesi, l’OPUS Study, il Progetto Svedese (Cullberg), il LEO Service ed il pionieristico Programma 2000 di Milano (Cocchi et al. 1999).

Le esperienze in Italia

In Italia, come altrove, il mondo della psichiatria più che costituire uno spazio di conoscenza, aperto e dinamico, dà a volte l’impressione di essere un terreno fertile per obsoleti orientamenti dottrinari, per letture ideologiche o, ancor peggio, per conflitti politici. Questo alimenta un generale atteggiamento fideistico – tante fedi quanti sono i campanili – poco incline all’umiltà, necessaria a perseguire la conoscenza. L’area della Salute Mentale ne risulta indebolita e poco credibile, premessa per pregiudizi e rafforzamento dello stigma, che inceppano la eventualità di evoluzioni innovative.

Di seguito quelle che appaiono essere alcune delle esperienze più significative e degne di menzione:

  • A Trieste, nell’ambito del progetto “Qualcosa è cambiato”, che prevede un modello ibrido generalista/specialista di rete per la prevenzione. Nel 2015 i CSM hanno accolto 16 persone all’esordio sotto i 30 anni di età, pari allo 0.051% della popolazione generale. Questo dato indica apparente assenza di treatment gap con una DUP molto incoraggiante: inferiore a 6 mesi (8).
  • Nel 2019 sulla rivista Early Intervention in Psychiatry sono stati presentati i risultati del gruppo di Modena, che adotta un modello ibrido di trattamento “specialist within generalist”. Dal 2013 al 2016 sono stati intercettati cento casi, con un’analoga promettente riduzione della DUP (9).
  • Di certa rilevanza nazionale le esperienze cliniche e di ricerca che sono derivate, o hanno tratto spunto completamente o in parte, dall’attuazione del Programma Strategico GET UP (10) che è stato realizzato dal 1dicembre 2008 nei Centri di Salute Mentale della Regione Veneto, della Regione Emilia Romagna, dei Dipartimenti di Salute Mentale di Firenze, Milano Niguarda Cà Granda, Milano San Paolo, e Bolzano. Di rilievo l’impatto dell’intervento psicosociale sistematizzato e multi-componenziale per utenti FEP (10, 11).
  • Un’esperienza nel nostro Paese, l’iniziativa TULIP (Tutti Uniti Lavoriamo per Intervenire Precocemente) (12) nasce alla fine del 2007 dall’incontro tra operatori della Salute Mentale, Associazioni di Famigliari e Amministratori sulla base dalle competenze accumulate in 10 anni di lavoro dagli operatori dal Centro per l’Individuazione e l’Intervento Precoce nelle Psicosi nell’ambito del pionieristico Programma 2000, il primo progetto di prevenzione realizzato in Italia (13, 14 ,15).

Un national survey promosso dall’Associazione Italiana Interventi Precoci nelle Psicosi nel 2013 ha fatto emergere interessanti dati relativi al panorama italiano: dei 216 Dipartimenti contattati 103 hanno fornito risposte valide (48%). Tra questi ultimi, solo 45 (44%) avevano strutturato un servizio di intervento precoce specifico per le psicosi (complessivamente dunque un Dipartimento su 5). Circa ventisette avevano anche un programma di screening per i casi ultra high risk. I Dipartimenti dell’Italia meridionale avevano purtroppo sia un numero inferiore di servizi specifici di prevenzione che un numero inferiore di progetti per i soggetti ultra high-risk rispetto a quelli del centro/nord Italia (16).

Trattamento farmacologico

C’è un’ampia mole di letteratura sul trattamento farmacologico del primo episodio psicotico e chiare linee guida (17,18) cui si rimanda, che non verranno descritte qui nel dettaglio. Ci si limiterà ad alcune brevi riflessioni.

Secondo le linee guida più accreditate (APA e NICE) nel confronto tra antipsicotici gli atipici hanno un migliore profilo di tollerabilità neurologica rispetto ai tipici, ma non una maggiore efficacia. Per il trattamento della farmaco-resistenza si suggerisce l’uso della clozapina e l’associazione di un secondo antipsicotico di seconda generazione (es. risperidone o sulpiride), pur riconoscendo le limitate evidenze a supporto di tale scelta. Vengono suggeriti anche potenziamenti con antidepressivi, stabilizzatori ed eventualmente TEC, utilizzabile anche per le forme catatoniche. Nella fase di mantenimento, da un minimo di 2 anni fino ad un trattamento indefinito, viene indicata la preferenza per la monoterapia ed il trattamento continuativo, ma viene riconosciuta la difficoltà di individuare le dosi minime efficaci per prevenire le ricadute (19).  

C’è un consenso unanime rispetto alla necessità di continuare con la terapia di mantenimento dopo la remissione per almeno un anno (19). Infatti la maggior parte delle persone che raggiungono un compenso sintomatologico restano a rischio di recidive e ricadute: una recente metanalisi di 29 studi longitudinali di follow-up ha mostrato tassi di ricaduta del 54% (40%-63%) entro tre anni. L’interruzione arbitraria del trattamento farmacologico conduce a tassi di ricaduta di almeno dell’80% entro 5 anni (il cosiddetto “periodo critico (19)).

Anche nelle linee guida italiane (ISS 2007, 2012) sugli interventi precoci nella schizofrenia suggeriscono una terapia farmacologica di mantenimento nel breve e nel medio periodo dalla remissione dei sintomi, finalizzata alla riduzione delle ricadute.

È da tener presente tuttavia, che uno sguardo d’insieme sulle raccomandazioni o Linee Guida dei Paesi Europei fa notare come nazioni con grande tradizione psichiatrica come la Francia o la Danimarca o l’Olanda o non si pronunciano o non privilegiano gli antipsicotici atipici (20).

Lo studio danese randomizzato OPUS trial ha confrontato un trattamento integrato, basato su terapia farmacologica antipsicotica affiancata da social skill training e trattamento familiare psicoeducativo in un regime di Trattamento assertivo di comunità (Assertive Outreach Community Treatment, ACT), e un trattamento standard con terapia farmacologica antipsicotica (21).

Dopo un anno di terapia è emersa un’efficacia del trattamento integrato rispetto al trattamento standard. Vari studi hanno inoltre testato l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale (CBT) rispetto ai trattamenti routinari nei soggetti all’esordio (31).

Le raccomandazioni sull’utilizzo degli antipsicotici atipici non sono dunque mai giustificati da una maggiore efficacia clinica ma da una minore incidenza di EPS e, di conseguenza, da una riduzione dell’interruzione nell’assunzione della terapia. Dal momento che questo si traduce in una riduzione delle riacutizzazioni, è così che si spiega il dato, riportato in molte Linee Guida, di una riduzione complessiva dei costi per il trattamento del disturbo, se vengono anche considerati i costi delle ospedalizzazioni o comunque i costi relativi alla gestione delle crisi acute.

Dal 2005 al 2009 sono stati portati a termine diversi importanti trial randomizzati: il CATIE negli Stati Uniti (26) ed il CUtLASS (23) nel Regno Unito per la schizofrenia cronica (22), l’EUFEST (24) ed il CAFE (26) per il primo episodio di schizofrenia (entrambi sponsorizzati da industrie farmaceutiche) ed il TEOSS (27) per l’esordio precoce dei disturbi dello spettro schizofrenico, quest’ultimo condotto dal NIMH. Tali studi sono stati definiti di tipo “pragmatico” o di effectiveness, in quanto la misura di esito non era l’efficacia clinica (“effetto del farmaco”) o la tollerabilità, ma l’interruzione del trattamento, considerata indice attendibile di quello che accade nella pratica clinica reale quando il medico curante o il paziente decidono di interrompere e/o modificare il trattamento.

Va menzionato, per completezza l’aripiprazolo, non presente in questi studi di effectiveness, in quanto commercializzato negli Stati Uniti nel 2002 ed in Europa dal 2004. È verosimile che l’aripiprazolo possa essere considerato alla stessa stregua degli altri antipsicotici atipici sulla base dei risultati degli studi clinici di efficacia e sicurezza condotti in seguito con tale molecola.

In conclusione tutti gli studi di tipo “pragmatico” o di effectiveness riconsiderano positivamente il possibile ruolo nel trattamento di farmaci di prima generazione. È quasi generale il consenso sull’utilizzo della clozapina nel trattamento della schizofrenia resistente, mentre non vi è accordo sull’utilizzo di politerapia antipsicotica. Gli antipsicotici tipici ed atipici sono gravati da effetti collaterali (EC) che possono di fatto coinvolgere qualunque distretto somatico. Il problema non è stabilire quale sia l’EC mediamente più grave tra i farmaci utilizzati, ma quello maggiormente rischioso e/o fonte di ridotta adesione terapeutica per il singolo paziente. Lo psichiatra dovrebbe, quindi, incrociare i dati della letteratura, dei trial clinici e delle LG con anamnesi personale e familiare, storia clinica pregressa ed attuale in relazione alla farmacoterapia dello specifico “caso clinico”.

Strategie terapeutiche non farmacologiche: CBT

Il funzionale integrarsi dei modelli e delle strategie che riguardano gli aspetti-chiave degli interventi non possono essere codificati in modo rigido, né decisi ad esclusivo giudizio del terapeuta. È fondamentale identificare insieme agli utenti (ed ai familiari/carers) gli obiettivi, in relazione a che cosa è più angosciante, su che cosa il paziente in quel momento è disposto a lavorare, cosa potrebbe migliorare il suo aggancio, la sua motivazione, le sue risorse, il suo funzionamento sociale, la sua realizzazione personale. Pur tenendo presente le varie teorie di riferimento, per ogni persona la formulazione del caso dovrebbe essere accuratamente individualizzata e documentata.
Il piano individualizzato di trattamento, in cui deve sempre essere presente la multidimensionalità del concetto di recovery, si può modificare nel tempo, e queste modificazioni vanno condivise in momenti a forte valenza psicoeucativa.
Un esempio è l’attenzione posta in decine di lavori sulla Cognitive Remediation e la Cognitive Enhancement. Molti hanno sottolineato come lo sviluppo di un disturbo psicotico abbia gravi ripercussioni sul funzionamento cognitivo dell’individuo. Le scarse abilità mnestiche e attentive, il declino delle funzioni esecutive generano uno stato di confusione e rallentano l’adattamento dell’individuo ai propri sintomi, rendendo più lunga la remissione e l’apprendimento di fondamentali strategie di coping. Tutto ciò oltre che rallentare la remissione ed il ritorno alla quotidianità, può contribuire al rischio di ricadute. Un altro effetto positivo della Cognitive Remediation, oltre al miglioramento sulle funzioni cognitive, sembra poter essere la riduzione di sintomi positivi e negativi. Sono stati notati inoltre effetti positivi della Cognitive Enhancement sulla Cognizione Sociale (31).

Oltre all’allenamento delle abilità cognitive, le CBT standard ed altre terapie finalizzate alla riduzione dei sintomi necessitano sempre più dell’integrazione di interventi psicosociali. L’obiettivo di tali interventi dovrebbe essere non solo il recupero delle abilità sociali, ma anche il supporto nei contesti educativi e professionali, limitando la dispersione scolastica e favorendo l’inserimento lavorativo.

Psicoeducazione, problem solving e trattamenti psicosociali

Recenti linee-guida internazionali sulla schizofrenia (NICE, 2010) nel riferirsi alla psicoeducazione, sia essa rivolta alla persona sofferente o alla famiglia, riprendono la definizione di Pekkale e Merinder (2002) “la psicoeducazione consiste nel fornire informazioni e apprendimenti a un utente con malattia grave e durevole, compresa la schizofrenia, sulla sua diagnosi, il suo trattamento, le appropriate risorse, la prognosi, le strategie di coping più comuni ed i propri diritti”. Al contrario di quanto avviene per il lavoro con la famiglia, non c’è però conclusiva evidenza che un intervento individuale distinto e delimitato – e gli studi fanno riferimento per lo più a un formato di gruppo – sia veramente efficace nel perseguire gli obiettivi che si prefigge (Lincoln et al., 2007).

Numerosi studi hanno dimostrato che i familiari di giovani al primo episodio psicotico sviluppano frequentemente ansia, depressione, stress, un senso di “carico” emotivo, oltre che sperimentare un ridotto supporto sociale, scarsa qualità della vita e non di rado problemi economici (4,5).

Il carico familiare è un costrutto complesso che viene distinto in oggettivo e soggettivo e viene influenzato da differenti variabili (6). La psicoeducazione familiare ha tra i suoi obiettivi quelli di ridurre la sofferenza e il carico emotivo, fornire supporto e strategie di coping, di modo che si instauri una maggiore sensazione di controllo e conoscenza della psicosi (7). Questa strategia che dovrebbe avere un effetto sull’insight, sulla emotività espressa, sull’aderenza al trattamento, sui sintomi e sul tasso di ricadute, richiede di essere calibrata sulle esigenze individuali.

La formulazione del caso è una ipotesi di lavoro sulle cause, il mantenimento e l’appropriato trattamento dei problemi dell’utente, che naturalmente può modificarsi nel corso della terapia, e come tale deve essere costruita, compresa e condivisa. Alla formulazione dovrebbe essere associato un dettagliato contingency planning (chi fa cosa, come e quando ove si presentassero criticità prevedibili).

All’interno dell’équipe multidisciplinare devono essere presenti figure formate all’utilizzo d’interventi rivolti al paziente e alla sua famiglia sulle seguenti tematiche: comprensione del disturbo, farmaci, abilità di comunicazione, emotività espressa, problem solving, segni precoci di crisi, obiettivi di crescita personale. Queste attività nella fase acuta di malattia hanno evidenziato maggiori benefici rispetto alle cure standard nel favorire la costruzione dell’alleanza terapeutica, nel migliorare l’aderenza alle cure e la soddisfazione degli utenti (Raccomandazioni di livello A, Linee Guida Regionali sugli Esordi, Unimore, 2016).

Modelli organizzativi

L’intervento precoce è rivolto non solo alle persone all’esordio riconoscibile o nel periodo susseguente ma, in un’inevitabile prospettiva preventiva collegata all’accettazione di un modello a stadi (36), anche al periodo che lo precede, definibile retrospettivamente come prodromico o, prospetticamente, come “periodo a rischio”. L’orientamento “early intervention” va comunque ben al di là del significato letterale e limitativo dell’espressione “intervento precoce”, ha contenuti ben più ampi e si declina in molte “dimensioni”: cliniche, nosografiche, terapeutiche, culturali, di organizzazione dei Servizi, di politiche e di economia sanitaria, di contrasto ai pregiudizi e al sigma, etc.

Possiamo considerare come ambiti dei trattamenti fase-specifici:

  • il periodo prodromico o a rischio, quando i sintomi, ancorché non dichiaratamente psicotici, o il malfunzionamento sociale, superano la soglia di un passeggero o normale malessere adolescenziale e/o esistenziale, al punto da determinare una richiesta di aiuto e giustificare il bisogno di un intervento terapeutico
  • l’esordio vero e proprio e il periodo che lo segue, definito da Birchwood (1996) “periodo critico”, che varia da due a tre anni dall’esordio, durante il quale avvengono cambiamenti cruciali sia biologici sia psicologici e sociali.

Appare importante sottolineare nuovamente che la DUP ha valore predittivo sull’esito, sull’evoluzione dei sintomi positivi, sulla risposta ai farmaci antipsicotici e sul funzionamento sociale. Questo suggerisce che esiste appunto un periodo critico durante il quale il deterioramento clinico ed il funzionamento psicosociale peggiorano rapidamente mostrando evidenti effetti negativi sulla prognosi a lungo termine (Lieberman, AM J Psychiatry 2005).

L’età cui sono rivolti i programmi varia in un range da 13 a 35 anni.

Partire dalla sensibilizzazione nel suo insieme è un’azione certamente complessa e bisognosa di continui e congiunti sforzi da parte dei protagonisti coinvolti. Le linee guida ministeriali italiane sugli interventi precoci nella schizofrenia (ISS, 2007/2012) nel delineare una configurazione ottimale dei servizi (pathways to care) raccomandano come primo step quello di intraprendere “attività informative e formative” indirizzate innanzitutto agli operatori del Dipartimento, quindi ai medici di base, ai pediatri, agli operatori di servizi sanitari del territorio, alla popolazione, alle scuole e alle istituzioni.

L’organizzazione dei Servizi di Salute Mentale italiani, calati nel contesto naturale di vita e articolati in presìdi, dovrebbe facilitare modalità di lavoro e approcci permeabili ai cambiamenti della struttura della Società e all’evoluzione delle conoscenze. In realtà, l’inerzia al cambiamento degli operatori, la limitatezza della ricerca, la polverizzazione delle competenze e delle responsabilità, le sovrastrutture ideologiche sembrano contribuire a vivere come “un di più” o a rendere invisibile l’approccio “early intervention in psychosis”, che rappresenta invece la vera novità nel panorama recente della Salute Mentale e che ha in sé, come sta succedendo in altri Paesi, potenti elementi di innovazione, di evoluzione e di sviluppo dei Servizi.

La crisi economica, che sta costringendo tutti i governi a ridurre e razionalizzare le spese per i servizi sociali rende oggi più che mai necessario che esperti, operatori e decisori politici adottino una strategia di valutazione degli interventi che renda la spesa sanitaria efficace in un contesto di risorse scarse, invecchiamento della popolazione e innovazione tecnologica costosa.

L’intervento precoce relativo alle psicosi produce potenziali risparmi in termini di minori costi nel lungo periodo, ma richiede investimenti iniziali, ed è quindi essenziale analizzare gli effetti delle politiche relative alla salute mentale nel dettaglio in termini di costi-benefici al fine di informare in modo preciso i decisori politici e i committenti dei servizi (13).

Di fatto la conoscenza, sempre più approfondita, dell’alta prevalenza dei disturbi psicotici e degli effetti a lungo termine dalla loro insorgenza in età giovanile, non ha trovato ancora un corretto ed ubiquitario riscontro nei vari modelli organizzativi (30, 31).

Una recente Cochrane Review, conferma che esiste una crescente evidenza empirica sulla cost-effectiveness dell’intervento precoce, anche se non possono ancora considerarsi dati conclusivi. McCrone et al. (2008) hanno calcolato che se i Servizi d’intervento precoce nel 2026 fossero disponibili per tutti, i risparmi per il Sistema sanitario nazionale inglese potrebbero essere nell’ordine di 18,5 milioni di sterline. Anche il centro studi ORYGEN ha commissionato un report che verificasse l’efficacia in termini di costi-benefici di diversi servizi nel mondo; il report ha calcolato che se Servizi specializzati d’intervento precoce fossero stati disponibili a tutti i nuovi pazienti in Australia, si sarebbero avuti risparmi di 215,5 milioni di dollari australiani in un periodo di 5 anni (82,5 milioni di risparmi finanziari e 130 milioni di risparmi relativi agli effetti diretti ed indiretti della malattia).

Secondo il Globan Burden of Disease Project in Italia, al pari degli altri Paesi europei ad alto reddito, i disturbi psichiatrici nella fascia 15-29 anni rappresentano il 34% del carico di malattia complessivo. Se poi a questo aggiungiamo altri problemi collegati alla salute mentale, come il ritardo mentale e l’abuso di sostanze, questa percentuale arriva al 50%.
Dunque vengono intercettati solo in misura parziale le persone giovani con problemi psichici proprio nella fase della vita in cui i problemi di salute mentale son più rilevanti.

Il treatment gap rappresenta la differenza assoluta tra la prevalenza di un disturbo nella popolazione generale e la percentuale di soggetti che ricevono un trattamento per quel disturbo.
Il rapporto tra questi due dati in Inghilterra evidenzia una copertura da parte dei Servizi pari al 20% e quindi un treatment gap dell’80%.
I pazienti giovani arrivano nei Servizi pubblici non al loro esordio, ma solo dopo essere stati già in contatto con gli specialisti privati o altre agenzie. I DSM non sembrano appetibili come strutture di primo contatto, ma lo diventano solo dopo cicli di cura (spesso infruttuosi) in altri ambiti.

Modello Specialistico Versus modello generalista di early intervention

Ci sono forti argomenti in letteratura a favore dell’una o dell’altra soluzione; modelli Ibridi come IRIS si collocano fra queste due opzioni. I modelli specialistici:

  • consentono la separazione di pazienti in fase più o meno avanzata di malattia;
  • promuovono nel team una peculiare filosofia e metodologia di lavoro;
  • danno l’opportunità di process mapping e di valutare le barriere all’invio (bottlenecks della clinical governance anglosassone);
  • permettono un miglioramento della percentuale delle individuazioni;
  • forniscono opportunità di ricerca.

I modelli generalisti:

  • consentono la creazione di una generale sensibilizzazione in tutto lo staff;
  • presentano difficoltà ad incorporare nuove idee nella pratica clinica di routine in un setting di salute mentale tradizionalista, spesso a causa della scarsa motivazione;
  • tendono a considerare le iniziative di prevenzione come un “inutile” problema a fronte di quello centrale: la gestione delle psicosi croniche; inoltre quando le risorse sono limitate si tende a non dare priorità agli obiettivi specialistici;
  • presentano resistenze ad incorporare nuovi modelli culturali.

Tenendo presente questi aspetti, sembra che a lungo termine un modello generalista sia difficilmente sostenibile. I servizi per adulti soffrono per una storia, stratificata, di pregiudizi stigmatizzanti ed esperienze negative accumulate negli anni, senza contare le acritiche sovrastrutture ideologiche e dottrinali.

Non è pensabile che i giovani possano accettare servizi che siano una mera estensione di quelli già esistenti per bambini/adolescenti o di quelli per adulti (De Girolamo, 2012).


Anche da queste considerazioni nasce la necessità di operare in un luogo specifico che possa fare da cornice per una risposta individuale e che non richiami stereotipi spersonalizzanti, scoraggianti e potenzialmente squalificanti. Un posto che si contraddistingua come luogo di cura per malattie a lungo (e potenzialmente infausto) decorso non è un buon facilitatore per l’aggancio e l’attuazione di un trattamento rivolto ai giovani, che ispiri fiducia in un futuro di recovery (31). Del resto in tutto il mondo stiamo assistendo ad una spinta innovativa che cambia il tempo, il luogo (come detto) e il modo dell’intervento preventivo nelle psicosi.

Per quanto concerne i tempi occorre agire superando le separazioni (NPI e Psichiatria degli Adulti) e considerando la persona nella sua continuità di esperienze e di relazioni. Purtroppo una sorta di abitudine può instaurarsi in operatori orientati a riconoscere patologie gravi, croniche e debilitanti: quella di rimanere cautamente miopi di fronte ai loro primi segnali. Le risposte invece dovrebbero essere sempre solerti, esaurienti, senza dilazioni o deleghe, magari con un servizio dedicato di segreteria telefonica, ad esempio. In ogni caso, secondo le Australian Clinical Guidelines il primo appuntamento dovrebbe essere fissato nell’arco di 24/48 ore (e senza una gerarchia professionale del tipo: prima il medico, poi lo psicologo etc.).

In relazione al “modo”: occorrono pratiche credibili, convincenti e evidence-based, erogate da persone esperte e consapevolmente basate sulle conoscenze scientifiche più attuali.

Il primo e fondamentale passo è un’attenta e approfondita valutazione, l’assessment – che va ripetuta nel corso del tempo, a cadenze prefissate.
L’identificazione e la valutazione della presenza e della gravità dei sintomi, dei fattori di rischio e di quelli protettivi, delle problematicità e delle risorse sia dell’individuo sofferente sia del suo ambiente, rappresentano quindi un passaggio chiave, irrinunciabile. Si tratta di un processo complesso e dinamico, che non si esaurisce in una fase iniziale, per decidere sull’opportunità della presa in carico e sulle sue caratteristiche e componenti, ma che continua, durante tutto il percorso, sia come atteggiamento clinico sia come utilizzo sistematico degli strumenti di misurazione scelti (13).

L’équipe, grande o piccola che sia, deve operare come tale e ogni azione deve rientrare in un progetto terapeutico condiviso. Deve essere orgogliosa e visionaria, ma adeguatamente umile da accettare come propria caratteristica la discussione, il confronto, il dubbio. L’individuazione precoce non è una caccia al potenziale malato, ma una risposta coerente, coordinata e finalizzata a tutte quelle domande che arrivano dalla giovane e giovanissima età, di modo che i Servizi risultino dinamicamente professionali e tempestivi verso tutti coloro che chiedono aiuto.

Tutti i primi casi, terminato l’assessment, andrebbero discussi in équipe, che si riunisce al completo da due a quattro volte al mese, per delineare le scelte e le azioni successive.

Declinare queste affermazioni generali all’interno dei Servizi per gli esordi significa porre attenzione al modello che vogliamo, favorendone uno sviluppo sistemico e una sua integrazione con i Dipartimenti di Salute Mentale e in particolare con i Centri di Salute Mentale. Significa in ultima analisi modificare il sistema di salute mentale operante in una determinata area perché possa rispondere meglio ai bisogni dei pazienti giovani con disturbo mentale grave (31).

L’integrazione tra strutture è appunto un processo che può essere lasciato alla buona volontà degli operatori oppure può essere guidato, garantendo la continuità tra le strutture attraverso protocolli. Se questo non avviene, nel passaggio da una struttura all’altra si rischia di perdere i pazienti giovani.

In questo senso ad esempio, un indicatore importante d’integrazione tra le strutture è quello relativo a quanti nell’anno, tra i pazienti ricoverati in SPDC, non prendano contatto con il CSM.

La multiprofessionalità dell’équipe curante all’interno del CSM è altamente raccomandata dalle linee guida nazionali sugli esordi psicotici, ma anche rispetto a questo c’è ancora strada da fare in Italia a livello regionale.
Multiprofessionalità, intervento territoriale intensivo e pratiche basate sulle evidenze sono connesse indissolubilmente: se vogliamo trattare in modo più intensivo i pazienti all’esordio, è velleitario farlo contando solo su medici e psicologi, ma è necessario favorire l’apporto delle altre professionalità. E per utilizzarlo al meglio è necessario anche formare gli operatori nelle forme innovative di trattamento psicosociale e implementare queste attività routinariamente nei Servizi, come accade già ad esempio in Lombardia ed in Emilia-Romagna.

Un passo successivo nell’analisi del processo di cura è quello di valutarne la qualità, utilizzando le dimensioni attorno a cui vi è maggior consenso: la continuità della cura, la persistenza nel trattamento farmacologico e l’appropriatezza.
Un paziente è definito in trattamento continuativo se riceve almeno un contatto ogni 90 giorni nei 365 giorni che seguono al primo contatto nell’anno.
Gli operatori generalmente sopravvalutano l’aderenza dei pazienti in trattamento, sottovalutando al tempo stesso il ruolo che la mancata aderenza ha sulla frequenza di ricadute.
Il primo aspetto innovativo è quello della valutazione strutturata e multidisciplinare dei pazienti. Fino a oggi la valutazione del paziente al momento del primo contatto con il DSM è avvenuta in modo non strutturato ed è stata legata alla singola figura professionale (generalmente il medico) che effettua la prima visita. Un secondo momento è rappresentato dal coinvolgimento delle famiglie fin dalla fase di valutazione. Questo è importante sia per acquisire informazioni, sia per attivare i debiti interventi.

Un ulteriore elemento riguarda l’informazione: è un punto cruciale se è vero che la qualità delle informazioni determinerà nei prossimi anni la qualità della cura. I Servizi d’intervento precoce possono promuovere nei DSM un migliore utilizzo delle informazioni disponibili.

Infine un Progetto “Esordi” è incardinato in una progettualità che include:

  • Ambulatorio ad alta specializzazione per l’adolescenza problematica e patologica;
  • Residenza e semiresidenza per la riabilitazione precoce.

Riassumendo le questioni cruciali sono: la scommessa sulle buone prassi multidisciplinari; il disagio e le forme subcliniche (in forte integrazione con altre agenzie); i comportamenti a rischio/antisociali; l’apatia clinica dei disturbi affettivi (ma anche l’individuazione precoce differenziale delle fasi manicali e ipomaniacali); gli esordi psicotici e gli stati mentali a rischio; l’addiction (anche nelle sue nuove declinazioni); le nuove utenze (immigrati, ragazzi adottati); l’autismo in adolescenza, sovente misconosciuto; gli esiti delle sindromi deficitarie, dopo l’evolversi di percorsi lunghi e articolati in altri ambiti d’intervento. È indispensabile investire sulla formazione del personale, sull’elaborazione di un metodo condiviso, e sulla precocità degli interventi.

Ulteriori rilevanti riferimenti normativi e di indirizzo sono: DPR 10-11-99: Progetto Obiettivo Nazionale Salute Mentale in età infanto-adolescenziale, con particolare riferimento alle linee guida regionali – DGR n. 460/99 e successive integrazioni. Il Progetto Adolescenti della disciolta ASL SA/2 con l’individuazione e la formazione dei cosiddetti “spazi adolescenti”; Le linee guida SINPIA nazionale per i servizi territoriali per l’età evolutiva; Il Decreto Regione Campania 105 del 1-10-2014 riguardante l’età evolutiva (37); Il documento SNLG “Gli interventi precoci nella schizofrenia” del 14 Ottobre 2007 (aggiornato nel Dicembre 2009).

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