Covid

COVID–19 e ricerca scientifica:
alcune scomode domande che potrebbero diventare proposte
di GIAN PIERO SBARAGLIA

18 Settembre 2024

Colleghi medici, sappiamo tutti che la storia della ricerca scientifica è fatta di osservazioni e statistiche, dalle quali si traggono conclusioni positive e negative, comunque utili per una diagnosi e cura.

Ma, mai come in questa circostanza, scandita dal ritmo dell’andamento del COVID-19, che ormai ha occupato le menti di tutti gli studiosi in materia, che hanno pontificato su tutto e su tutti, in un continuo andirivieni di detti e contraddetti, che hanno fatto sorgere soprattutto nei “laici” sfiducia e pessimismo nella ricerca scientifica, nella fattispecie proprio quella sull’approccio al COVID-19, dovremmo rifare alcune riflessioni su come gestire la ricerca con la “R” maiuscola.

Invero, come non porsi alcune domande, prescindendo dalla matrice culturale di ciascuno, specifica o non specifica in campo scientifico medico? Domande che al contrario, se fatte da chi è in qualche modo del mestiere, rappresentano una chiara denuncia di incompetenza verso chi ci rappresenta oggi nel campo della ricerca medico – scientifica? Andiamo subito al “sodo”:

Si sta tanto parlando degli effetti dei vaccini o meglio delle vaccinazioni contro questo virus, effetti dichiarati in base a personalissimi sintomi, denunciati da molti utenti con un “flatus vocis” e raccolti e passati come “veri dati” di statistica. Ed allora:

Prima Domanda: c’è stata finora una iniziativa programmata ed organizzata dagli Ordini dei Medici, con lo scopo di inviare un questionario a tutti i medici di base, con l’obiettivo di raccogliere dati “Ufficiali” sulle probabili sequele post – guarigione, riscontrabili in soggetti che hanno contratto il COVID-19 e ne sono usciti apparentemente guariti?

Seconda Domanda: c’è mai stata da parte degli organi sopracitati qualche altra iniziativa, sempre con l’invio di un questionario ai medici di base, volta a conoscere possibili danni o complicanze da vaccinazione, utile a stilare una sorta di “statistica” ufficiale circa gli effetti indesiderati delle vaccinazioni e a quali soggetti – con o senza patologie pregresse – fossero risultate più presenti?

Terza domanda: i centri vaccinali si sono fatti carico di richiamare o obbligare chi si era vaccinato, a tornare in quelle sedi per riferire ai medici addetti, eventuali insorgenze di sintomi legati alle vaccinazioni, sia dopo la prima che dopo la seconda dose?  

Quarta domanda: perché l’avvenuta immunizzazione non è stata monitorata in quelle sedi sanitarie pubbliche, invece di lasciare l’iniziativa al semplice e incompetente privato cittadino, il quale – forse – avendone fatto per sua curiosità l’eventuale accertamento, di certo non avrà inviato i suoi risultati assai preziosi alle autorità competenti, né al suo medico curante? Perché proprio in quelle sedi non si è pensato di organizzare burocraticamente uffici preposti a rilasciare SUBITO, dopo l’avvenuta vaccinazione, un’adeguata certificazione all’utente così da rendergli la vita più semplice, complicatasi invece con la richiesta del “green pass”, che ha creato non pochi problemi, perdite di tempo e preoccupazioni ((soprattutto ai soggetti anziani, che poca o nessuna dimestichezza hanno con i cellulari) e non solo?

Una certificazione “SUL POSTO” non sarebbe stata utile e rapida soluzione al problema, invece di mettere in atto una farraginosa macchina burocratica che non pochi equivoci ha e sta creando?

Un esempio, oltre a quelli rilevati in alcuni miei pazienti, è quello che mi ha chiamato in causa direttamente perché occorso ad un mio parente, avvocato in Roma, che vaccinatosi alla “Nuvola” dell’Eur da più di quattro mesi, forse per un errore burocratico (e quindi non per sua colpa!) a tutt’oggi non è ancora riuscito a dipanare la matassa burocratica dell’errore ed ottenere questo famigerato GREEN PASS: si trova ancora nell’impossibilità sia a frequentare ambienti che lo richiedono tassativamente, sia a non entrare nella sua Università, per tenere lezioni.

Quinta Domanda: è noto a tutti il meccanismo di contagio di qualsivoglia malattia: ma perché per il COVID-19 ha assunto il ruolo di prima donna, dimenticando che esso ha tante tecniche di diffusione, in particolare quelle aeree, o peggio ancora sapendo che ci sono “portatori sani”, in silenzio di sintomi, che possono recitare la parte di untori?

Certamente è facile sollevare critiche in pantofole, ma l’assunzione di responsabilità, quando si è in certi posti e con certe mansioni, obbligherebbe chiunque faccia ricerca scientifica, ad intraprenderla con la preparazione storica di come questa deve essere fatta. O meglio, nel rispetto delle linee guida richieste in tali frangenti, ma soprattutto con la prudenza e l’umiltà di chi sa che in campo medico scientifico “DUE PIÙ DUE NON FA MAI QUATTRO”. E di maestri nella nostra storia ne abbiamo avuti a iosa e pure con grandi risultati sul campo!

Facciamo un nome per tutti: il Professor Renato Dulbecco, virologo e premio Nobel per la Medicina e Fisiologia nel 1975, del quale ci piace ricordare qualche suo pensiero che ben si addice alla situazione di oggi: “ricercatori vi affluirono da tutto il mondo perché riconoscevano che il mio lavoro era all’avanguardia, era la prua della nave che rompeva il mare dell’ignoranza” ed ancora “Per indagare l’azione dei geni di questi virus pensai che bisognava prima di tutto capire che cosa ne accadesse all’interno delle cellule rese tumorali […]. Si supponeva che il virus entrasse nelle cellule, ne alterasse i geni e poi scomparisse, comportandosi come un pirata della strada che investe un pedone ferendolo e poi scappa abbandonando il luogo dell’incidente…”.

Accanto al prof. Dulbecco come non ricordare il Dottor Carlo Urbani, infettivologo italiano, che nel 1993 entrò a far parte dell’organizzazione Mondiale della Sanità, mentre nel 1999, facente parte dell’O.N.G. “Medici senza Frontiere” e divenutone Presidente della sez. Italiana, ritirò il Premio Nobel per la Pace per conto dell’Associazione. Urbani si mise in evidenza sulla ribalta internazionale, quando nel 2003, già membro dell’OMS ed inviato da quest’ultima in Vietnam, fu chiamato per curare un uomo d’affari, ricoverato per febbre e gravissimi sintomi di deficit respiratorio, dall’ospedale di Hanoi. In quella circostanza il medico si rese conto, a differenza dei suoi collaboratori, di trovarsi di fronte ad una nuova e grave malattia, tanto che ne fece comunicazione al governo e all’OMS. Riuscì a farsi sentire così tanto che fece adottare misure di quarantena. Ma a febbraio di quello stesso anno 2003, mentre era in viaggio da Hanoi a Bangkok, avvertì sintomi quali febbre elevata e difficoltà respiratoria. Ricoverato in quarantena, morì il 29 marzo dello stesso anno, consigliando ai suoi colleghi accorsi dalla Germania ed Australia, di prelevare i suoi polmoni per analizzarli e studiarli per la ricerca.

Quest’ultimo fatto grida vendetta contro chi, in questa pandemia, – come già scrivemmo in un precedente articolo su questa rivista l’8 aprile scorso – proibì le autopsie ai morti di COVID-19. E allora questi messaggi di saggezza, da molti dimenticati, applicati ai nostri giorni, sembrano preconizzare lo stato di salute della nostra cultura scientifica e costituiscono, per chi sa recepire la riflessione, uno sprone a mettere in campo quelle misure e quelle linee guida che provengono e debbono provenire, da una sana cultura, fatta di seri studi, libera da preconcetti di individualismo e di protagonismo degli attori e che nulla ha a che fare con la vera scienza, onde ridare capacità e credibilità ad un settore – il sanitario – già in sofferenza da anni, e del quale questa pandemia ha fatto emergere tutte le lacune.

Del Dott. Gian Piero Sbaraglia
MEDICO CHIRURGO
Spec. In Otorinolaringoiatria
già Primario Otorinolaringoiatra,
C.T.U. del Tribunale Civ. e Pen. di Roma
Direttore Sanitario e Scientifico Centro di Formazione
BLSD-PBLSD – Accreditato ARES 118-Lazio e IRC- Misericordia di Roma Centro – ROMA.