Cultura è Salute

Un astratto tocco informale
di ISABELLE FELICIONI

27 Giugno 2022

Per continuare in modo più creativo quanto scritto nel precedente articolo, vorrei sottoporre alla vostra attenzione l’uso delle parole.

Noi come medici siamo portati a dover parlare e ci viene richiesto che la nostra comunicazione sia chiara e comprensibile. Mi sono permessa di paragonare la scrittura all’arte: un approccio adulto, ma bambino. La necessità di dover dire qualcosa che non sempre ci viene richiesto: interpretazioni. La parola ci dà il dono dell’interpretazione, ma non può diventare arma perché chi ci ascolta coglierà con il suo modo quello che diciamo. La parola. La semplicità.
Arte e medicina: è sempre l’uomo che resta per me il soggetto da studiare nella sua infinita combinazione di reazioni, uniche e irripetibili: non dovrebbero essere giudicate, né forse troppo interpretate ma in primo luogo sempre OSSERVATE.

Osserviamo senza giudizio. Ne verrà fuori, se necessario, una diagnosi personalizzata e non dettata da forme pensiero che non sappiamo più se essere nostre o del paziente.

Vedo correre un bambino su di un sentiero tortuoso, astratto ma anche informale. Cerchi e sfere. Linee, punti. Surreale, espressionista nel suo impressionarmi. Un paesaggio che solo tra i solchi del cervello possono delinearsi cosi maledettamente lineari. Colori e luce. Chi chiama chi. Non lo so.
La necessità impellente di scrivere. Di trovare un foglio bianco. Ma cosa ci può essere di astratto in un foglio bianco se non che virtuosamente si inchini alla mia mano e lasci che il segno si posi di lui leggero o pesante, a seconda delle parole che scelgo di scrivere? Sequenze di lettere che formano appunto parole, le mie, ma non c’è originalità in questo. Sono parole. Non esiste nome che non possa già essere stato sposato con un aggettivo. Sono le regole della grammatica e per quanto lo scrivere sia forma d’arte, con la scrittura si può diventare ridicoli o geniali. Ma non si potrà mai essere astratti. Anche l’emozione che sembra dissolversi all’orizzonte non è poi così astratta. Abbiamo dato a tutto un nome perché di astratto non ci fosse più nulla. E all’umano cosa resta da inventare?

Il modo, il tempo, la coniugazione. O il sovvertire il caotico ordine del cielo. Noi non parliamo la lingua degli angeli, tantomeno li conosciamo. Abbiamo scelto di rendere tutto terribilmente reale in modo che tutto potesse essere nostro. Essere avidi di sapere non è sinonimo di capacità di trasmettere qualcosa che una pennellata può semplificare e celare in modo eterno. Le parole sono questo: traduzione di un umano sentire. Ma di umano resta ben poco. Il divino è sceso nell’onirico mondo dei morti e anche questa non è un’idea originale. Lo spirito è asceso a tal punto da non poterlo più cogliere. Perché l’uomo adesso conosce anche questo. La fisica, i campi magnetici. Ma di quel sentiero tortuoso che vedo non ne vuol sapere.

È un intreccio troppo complesso e troppo appunto astratto. E quello che l’uomo non riesce a cogliere, così come la mela, deve essere allontanato dallo scibile. Cogliere la mela così come il bel pomo d’orato, diventa poi della discordia è più consono all’essere umano che di regole non vuole sentir parlare. E, in fondo, non è nato per qualcuno tutto da lì? Cosa è cambiato da allora. Una trasgressione lo ha portato a lasciare il paradiso in virtù del mondo reale in cui trova massimo godimento del lamento e della lussuria e del cieco sordo muto vivere insieme all’altro.
Non aveva niente da cercare: aveva il paradiso, aveva una donna. Aveva tutto quello a cui oggi l’essere disumano anela. Oggi pagherebbe per quello e forse lo fa pure. Ma allora ha scelto altro per cosa? Vanità, curiosità, arroganza. Forse Dio o chi per lui già lo sapeva. Quel sentiero tortuoso che sulla retina si imprime come un campo immenso di luce. I campi elisi. Ma non è la morte quello di cui voglio scrivere.
Ho semplicemente voglia di quell’immensa distesa, cui non do nome, perché qualsiasi nome non è astratto non è liberamente interpretabile nel momento in cui io gli do un nome.

Fin da piccoli ci insegnano a dare un nome alle cose per far morire la fantasia prima del tempo. O prima che quella mela sia davvero matura per essere colta. Anticipazione, corsa. Sempre più veloce. Ma la direzione? Sono convinta che l’essere umano stia tornando così indietro che l’eden probabilmente era ancora solo nella mente del buon Dio. Ma cosa importa? Io sono qui per parlare d’altro.
Ho visto un bambino correre su di un sentiero tortuoso: aveva un sorriso aperto e le braccia tiravano gli angoli della bocca. La libertà. Correva e lasciava traccia di sé: uno scarabocchio. Si, uno scarabocchio.

Di certo qualcuno con fare saccente si avvicina e dice “in questa linea ci vedo la mano decisa dell’artista che nulla vuole se non trasmettere l’emozione di quel momento, un altro lo guarda e portandosi il dito sulla bocca con fare saturnino dice: io sento il profumo del grano, è di certo estate. Una donna piega la testa e cerca di dare un senso. Il suo occhio è attento. Ma tace. Perché di fronte a tutto questo non ci può essere che silenzio. Strano. Come si fa a riempire lo spazio se non si parla, se non si commenta, se non si interpreta, se non si trasforma.
La trasformazione di suo sa di magia. Ma la trasformazione è anche alterazione della realtà. E allora poi si perde il sentiero della verità. La verità, per la quale non basterebbe una vita, un’enciclopedia e un bicchiere di vino. Per me c’è un bambino che corre su di un sentiero tortuoso. Non descrivo quello che vedo, ma provo a scrivervi quello che sento.
E sento il vento.
Qualcuno mi rimbrotterà dicendo che rumore fa il vento?
E come faccio a scriverlo? Ve lo potrei disegnare o suonare, ma scrivere no.

E qui torna la potenza della parola. Onomatopeica. Il vento forse come il silenzio fa shhhhhhhhh. Sempre che sia tranquillo. Intanto nel mio cervello chissà quante connessioni si sono attivate: una centrale elettrica. Perché a stimolo corrisponde recettore a recettore rilascio di una particolare sostanza e poi trasmissioni di impulsi e non me ne voglia Freud, anche di pulsioni, azioni, coazioni.
Mi balza alla mente l’immagine di Sig. (Freud) che mentre parla al paziente steso sulla comoda chaise longue poggia una mano sulla fronte.
Perché non lo facciamo più?
Perché non tocchiamo più?
Ci si sporca forse, non lo so. Ma so che mentre vi scrivo io sento bene l’effetto che il tasto sul mio polpastrello e sento il rumore quando già la lettera è stata scritta. Potenza della velocità del tatto che batte la velocità di conduzione di un suono. Ma che importa! Vogliamo la velocità della luce. Quella che rende alieni. Ma mai astratti. Perché anche gli alieni avendo un nome hanno per ciascuno di noi una forma, un colore, un aspetto direi.
E allora come faccio io a portarvi dove sono io stessa adesso?
Ve lo ripeto: vedo un bambino correre su di un sentiero tortuoso. Sorride, le braccia tese a tirare gli angoli della bocca.

(La stesura dell’articolo si basa su molte letture tra le quali consiglio “La mia voce ti accompagnerà” di M.H.Erickson).