Storie

“Col SEnNO Di poi”, una piccola grande esperienza di medico/paziente
di PATRIZIA MORELLI

Scrivo volentieri qualche parola di narrazione su alcuni momenti di vita in una strada professionale fatta di bivi, giocoforza contigui, talvolta esperienze importanti di vita personale. Per i più giovani colleghi in cui credo molto e che molti dei quali ho imparato negli anni di professione a conoscere. Per qualche collega un po’ più grande di età, come me, che si ritroverà – forse in qualche passo delle righe che seguono – a pensare a sua volta a qualche tratto di percorso della propria vita.

Alcune parole più di altre definiscono il nostro sentiero di vita.

Nel mio caso, le parole Radici e Ali hanno man mano maturato un significato profondo e mai banale, scoprendomi legata ad entrambe in maniera indissolubile.

Le radici ci rimandano alle origini. Le mie partono da una famiglia semplice e solida di principi, con un nonno minatore e l’altro nonno venditore di liquirizia. Papà arrivò dalla Calabria nel dopoguerra come molti suoi coetanei, un po’ impauriti e desiderosi al contempo di una nuova vita; raccontandoci spesso che della Calabria gli mancava soprattutto la sua mamma. Mia mamma altrettanto si era spostata con sua sorella al nord dalla Sardegna, cosa non così diffusa fra le ragazze del suo tempo. Si incontrarono, furono presentati da un cugino di papà collega di mamma, e si sposarono. Non ho mai saputo molto della loro storia, per quel pudore d’altri tempi nel parlare di questi temi ma so che sono arrivati quest’anno a compiere 60 anni di matrimonio.

Degli anni in famiglia nell’infanzia e nell’adolescenza ognuno di noi serba una immagine più forte delle altre: per me è rivederli singolarmente, mio papà chino sui libri alla sera a studiare e rammentare mia mamma attenta al risparmio su ogni cosa senza mai far mancare nulla a me o a mio fratello. E vedere al contempo come insieme abbiano trasmesso a me e a mio fratello un valore che, per assurdo, essi non avevano in sé e non conoscevano ma desideravano per noi: l’istruzione sopra ogni cosa. Io ho studiato con piacere e se ci fosse un lavoro in cui il sostentamento è dato dallo studiare, ripeto sempre che quello sarebbe il mio lavoro elettivo. Sento ancora il piacere di aprire e toccare/quasi sentire il profumo di carta delle pagine di un nuovo libro al liceo, che fosse l’adorato volume di storia o la più faticosa grammatica di greco antico. Ho scelto medicina e non riesco a dettagliare l’intimo dei sentimenti e pensieri che mi hanno spinto a sceglierla, sono sicura che quella scelta di 40 anni fa mi accomuni a tanti, molti tra voi.

Io che da bambina avevo sempre desiderato essere (e non fare) la dottoressa, al momento dell’ingresso nel palco professionale ho compreso però che la Clinica non era così adatta a me o io a lei. Fortunatamente e, chissà, forse anche per un giusto intuito, la Vita mi ha posto velocemente di fronte a una scelta che ho imboccato senza riserve per trovare quello che sarebbe stato il mio vero snodo di strada, la mia passione professionale: la Ricerca clinica. Ho lavorato per 20 anni e qualcuno in più nello sviluppo clinico di molecole che da sigle di laboratorio ho visto diventare farmaci. Nell’area cardiovascolare, infettiva, metabolica e, come un cerchio che si chiude in maniera armonica, anche nell’area ginecologica, la mia area di specializzazione. Partecipando ad incontri fecondi nel definire il concetto cardiovascolare quando non esisteva o nel vedere profilarsi in tempi non sospetti il fenomeno della multiresistenza agli antibiotici. Ho scritto protocolli clinici di sviluppo a livello globale, tanti protocolli. Mi sono così sentita realizzata nell’aiutare il paziente pur non avendolo fisicamente davanti a me. Ed è così che, nel percorso professionale, entrano in gioco le ali. Io che non sono salita su un aereo fino ai miei ventisette anni, mentre ora guardo con un sorriso bimbi piccolissimi autentici globetrotter.

Ho viaggiato tantissimo, quanto ho viaggiato! A volte per un giorno solo, andata e ritorno a/da un Paese europeo; a volte per settimane, in Europa e nel mondo. Nei primi anni in cui mi affacciavo al mondo del lavoro, trascorrevo il tempo in aereo incollata sugli appunti di riunione col timore di non essere all’altezza o di non rappresentare il mio Paese al meglio come desideravo; via via acquisendo mestiere e sicurezza, sempre affiancando quell’umiltà che a mio avviso non limita ma ci dà il giusto peso delle cose; unendo progressivamente un sano desiderio di conoscere il mondo e di portare il mio mondo italiano. La lingua inglese in molte giornate della mia vita è stata la mia linguamadre. E quando qualche collega anglosassone parlava in uno slang in-ca-pi-bi-le, in tono educato ma fermo, ho sempre domandato di avvicinarsi a una lingua più standard. Alcuni dei colleghi stranieri sono poi diventati amici a cui ho fatto conoscere piatti della mia cucina e luoghi del mio Paese!

Ma la Vita ogni tanto ci tira qualche scherzo non di poco conto, così a un certo punto mi ha posto di fronte al Male, un grande male. Paura, rabbia, stupore, disperazione. Un misto di ripugnanti sensazioni ed emozioni che ho guardato e non svicolato, almeno per me è stato salutare confrontarmi con esse e solo così iniziare la sfida (non ho mai usato parole belliche, spesso di moda in questi casi: battaglie, guerre…). Perché ho sempre visto la malattia come una parte, seppur brutta e spiacevole, di me. A quel punto ho dovuto firmare un consenso informato come paziente (dopo molti dubbi e paure, eh sì, pur essendo una ricercatrice) e sono dovuta/voluta entrare in un protocollo sperimentale. E così, dopo aver scritto – ironia della vita – tanti protocolli e tanti consensi informati come medico, ho conosciuto l’altra faccia della squadra, quella del paziente.

Negli anni della malattia ho lavorato, sempre. Ho conosciuto il lavorare da casa in tempi che sembrano lontani, quasi di un’era fa eppure sono trascorsi solo una decina di anni. Lavoravo, tenendo presente la regola che mi ero data, fare senza strafare. Perché la priorità da malati è una e una sola, curarsi. E curarsi è un mestiere e occorre farlo bene: è un dovere verso sé stessi e verso gli altri, le persone che ci circondano e rappresentano il nostro vissuto di conoscenze, affetti, amicizie, lavoro e che tengono a noi. Non ho mai dimenticato nel curarmi quel pensiero agli Altri. Nel frattempo percorrevo il sentiero di terapia in cui non mi sono fatta mancare nulla tra chemioterapia, intervento chirurgico, radioterapia, ormonoterapia.

Ma non è che è sempre tutto male (fortunatamente) o tutto bene (sfortunatamente). Così mentre ero in malattia, ha preso forma concreta l’attività in seno all’ Associazione non profit internazionale che avevo fondato qualche anno prima, la Peter Pat ( sono chiamata Pat dagli amici): associazione operativa in  attività interculturali per l’infanzia negli anni a cavallo del 2010 tra cui un incontro stanziale tra una classe di scuola primaria di Milano e una scuola di Tirana; una settimana in cui i bambini con la guida dello staff Peter Pat e delle loro preziose Insegnanti si sono conosciuti a vicenda e tuttora sono in contatto. Perché si impari da piccoli che l’altro non ci deve far paura. Un’esperienza intensa e che ha maturato me per prima nel confronto coi miei Volontari e Volontarie, nell’ esperienza e responsabilità di gestione di budget e questioni amministrative lontane dalla mia formazione, nei tanti contatti tra cui quello arricchente con le Ambasciate italiane nel mondo.

Un’esperienza nata dalla passione per i viaggi maturata con la professione unita alla fiducia nell’Infanzia da sempre amata e da cui sono riamata. Ho, per esempio, da poco scritto tre fiabe su temi importanti raccontati in modo lieve adatti ai bambini e le ho messe alla prova leggendole a due miei cuginetti di età differenti (un autore tende a credere ogni volta di aver scritto una nuova Divina Commedia e chi più dei bambini può riportarti sanamente coi piedi per terra), vedremo se troverò modo di farle pubblicare.

Dalla malattia, lunga e non facile ma fortunatamente risolta, è nato un libro come a volte accade in questi casi, “Col SEnNO Di poi“, per aiutare un poco anche gli Altri attraverso questa piccola grande esperienza di medico/paziente. Penso che un diario, e ce ne sono tanti chiusi in un cassetto, è di chi lo scrive; mentre il libro è di chi lo legge. Lo scrivere, mi dicono, è un po’ l’espressione della mia empatia da vissuto medico-ricercatrice e da ex-paziente e donna. Nel libro e in un articolo successivo richiestomi dalla medesima Casa Editrice, vi si trovano le mie piccole “tips” come dicono gli Anglosassoni, quelle pillole di esperienza e saggezza che ognuno trova inedite in sé e a volte possono essere di aiuto ad altri. Io le ho raccontate e condivise in questi anni in vari incontri a poche, tante persone venute ad ascoltarmi ma anche, a propria volta, per raccontare la propria esperienza in malattia.

Qualche anno fa, altra tappa di vita. Ho lasciato il tempo pieno nel farmaceutico, scelta ponderata e serena tanto che i rapporti con quel mio mondo non si sono mai interrotti. Avevo infatti compreso che un periodo estremamente arricchente della mia vita professionale si stava concludendo ed era giusto anche eticamente aprire un nuovo capitolo di vita.

Cosa ho imparato da questo percorso fino a oggi?

Nelle lezioni tenute a qualche Master, nelle formazioni scientifiche a tanto personale nel farmaceutico dico sempre di aver capito con forza che nella vita occorre fare ciò che ci piace, anche quando non vai a ballare in discoteca come i tuoi coetanei e a te piacerebbe tantissimo (sono pur sempre una ragazza degli anni ‘80), anche quando studiare non finisce mai. Per qualche anno dopo aver lasciato il tempo pieno ho molto rallentato le attività professionali per via della Peter Pat, per la malattia, per necessità personali e famigliari. Ora riprendo il mio cammino e forse questo scritto vuole essere l’inizio di un nuovo pezzetto di strada.

Raccontarsi non è facile, non è stato facile neppure farlo qui; talvolta però la spinta etica che ce lo fa fare prende il sopravvento nel voler condividere quella fiammella dentro di sé/dentro di te impregnata di umanità nel senso più pieno e che, pur nella unicità di ogni vita, mi accomuna forse anche a qualcuno tra coloro che ora mi sta leggendo.