Medico-Paziente

Suicidio, narcisisti e giovani le categorie più a rischio
di MAURIZIO POMPILI

18 Ottobre 2021

A richiamare l’attenzione sul tema il recente Convegno di Suicidologia e Salute pubblica che si è svolto dal 10 al 18 settembre con la partecipazione di oltre 7mila partecipanti di tutto il mondo. Cos’è cambiato con la pandemia? Quali sono i soggetti maggiormente a rischio? Ne parliamo in questa intervista con il Professor Maurizio Pompili, docente ordinario di Psichiatria presso l’Università “La Sapienza” di Roma, uno dei maggiori esperti in materia.

Il suicidio è responsabile di oltre 800 mila morti ogni anno, vale a dire uno ogni 40 secondi. Su quali aspetti si è focalizzato l’ultimo convegno di Suicidologia e salute pubblica?

Il Convegno prevedeva 9 webinar nell’arco di 10 giorni, una sorta di maratona a tutto campo, dove si sono susseguiti relatori nazionali ed internazionali, che hanno presentato diversi temi nell’ambito della psichiatria e della salute mentale così come sulla prevenzione del suicidio. La focalizzazione non è stata solo sul suicido, che comunque resta un elemento di grande rilievo, ma i partecipanti hanno fatto il punto anche su argomenti correlati, altrettanto meritevoli di attenzione: uno tra tutti il narcisismo, perché si tratta di una personalità ostile che, di fronte a sconfitte o umiliazioni, pensa proprio al suicidio come soluzione alla sua marcata sofferenza. Altro tema è stato quello della psicolofarmacologia, rispetto alla quale si è fatta una disanima molto approfondita. Ci siamo interrogati sulla possibilità di riconoscere gli elementi peculiari come i sintomi cognitivi nell’ambito della depressione così pure sono stati fatti una serie di focus sulla pandemia e sull’impatto che ha avuto nell’ambito della salute pubblica e mentale, con interventi che hanno rilevato come le richieste di aiuto siano cresciute a dismisura proprio nel periodo pandemico. Al centro di tutto è stato posto il rapporto con l’individuo in crisi.

Uno dei dati maggiormente preoccupante riguarda i giovani, tra le categorie maggiormente esposte. Ma perché? E di che numeri stiamo parlando?

In linea generale dobbiamo sottolineare che, guardando i dati globali sulla popolazione adulta, non c’è stato un aumento nel trend. Per l’Italia non abbiamo ancora dei dati definitivi di riferimento, ma purtroppo è aumentata la miseria umana, così come la solitudine, l’ansia, la depressione. Quel che è certo è che non bisogna abbassare mai la guardia perché, se durante il primo anno di pandemia anche le percentuali di suicidi erano purtroppo cresciute, ora possiamo constatare che le tante opere di prevenzione, fatte molto precocemente, hanno dato i loro frutti. Ma bisogna continuare in questa direzione altrimenti il rischio è che nuove situazioni critiche potranno comunque verificarsi negli anni che verranno, con grandi danni. Per quanto riguarda i giovani nella fascia 15-29 anni registriamo invece un aumento; basti pensare che tra i giovani il suicidio è la seconda causa di morte, secondo solo agli incidenti stradali, dunque rappresenta un elemento critico sul quale lavorare molto. Il giovane è di per sé una persona fragile, è in uno stato di maturazione nel quale le emozioni non sono ancora per regolate e controllate. Le sconfitte o le umiliazioni sono spesso molto difficili da gestire, inoltre proprio i giovani sono stati toccati molto da vicino dal distanziamento sociale, non hanno potuto frequentare le attività ricreative, insomma sono stati duramente colpiti dagli effetti della pandemia. A livello d’osservazione nei vari contesti è aumentato l’autolesionismo, ma anche in questo la chiave di volta è saper dare loro il corretto sostegno.

Come riconoscere la persona a rischio suicidio? E come supportarla?

Bisogna imparare a riconoscere la sofferenza mentale, quel momento in cui l’individuo non riesce più a vedere alcuna via d’uscita al suo malessere ed individua nel suicidio l’unica soluzione per trovare “una svolta”; in realtà, se fosse correttamente aiutato, il soggetto vorrebbe vivere. Quel tipo di supporto deve arrivare da un medico, da un clinico, da qualcuno che possa stare vicino al soggetto a rischio: per questo formare ed informare sulla prevenzione al suicidio, riconoscere i segnali d’allarme e i campanelli, come ascoltare il soggetto quando fa certe affermazioni come “non ce la faccio più”, diventano atti di fondamentale importanza. Il soggetto a rischio suicidio spesso è protagonista di cambiamenti d’abitudine nella sua vita quotidiana: insonnia, ansia, agitazione, irritabilità, abuso di sostanze sono solo alcuni degli elementi da non sottovalutare. A questi vanno aggiunti il ritirarsi dagli affetti, ma anche non prendersi più cura di sé stessi o cimentarsi in attività rischiose; sono tutti segnali allarmanti. Anche i cambiamenti di umore repentino devono destare sospetti. Tutti queste avvisaglie ci aiutano a tracciare una sorta di “identikit” della persona fragile, che pensa di farla finita.

In tal senso quanto diventa determinante il ruolo del medico?

Il medico ha un ruolo fondamentale, basti pensare che il 45% delle persone che si tolgono la vita, vanno dal medico di base nel mese precedente all’atto letale o, in alcuni casi, si rivolgono all’operatore della salute mentale circa una settimana prima di arrivare a togliersi la vita. Sono persone che tendono dunque a mascherare la loro richiesta d’aiuto, per questo si deve avere il coraggio di far loro le domande, anche scomode, che favoriscano il dialogo ed aiutino il soggetto a rischio ad aprirsi, a raccontare il suo disagio. Per questo è molto importante privilegiare modalità d’interazione empatiche, favorire il dialogo, porre domande, chiedere apertamente le intenzioni.