Storie

“Dall’altra parte della spondina” vince il concorso “Racconto la mia cura”
di LAURA MINGUELL DEL LUNGO

16 Febbraio 2022

Vincitrice del concorso di Medicina Narrativa ”Racconto La mia cura”, la Dottoressa Laura Minguell Del Lungo – che è già stata intervistata da “La Voce dei Medici” in occasione della pubblicazione dei suoi precedenti romanzi – ci invia il testo che l’ha portata ad aggiudicarsi questo prestigioso premio, per la sezione “pazienti”. 

Da parte della redazione complimenti!

DALL’ALTRA PARTE DELLA SPONDINA

Di Laura Minguell Del Lungo

Sono diventata madre da quattro giorni. Per la quarta volta. Ho quarant’anni.

Sono anestesista.

Ora fisso il controsoffitto bianco abbagliante del box in cui mi hanno infilata. Una tenda mi separa dai miei colleghi del pronto soccorso, impegnati ad assistere pazienti. Io sto con loro, ma non sono con loro. Sono dall’altra parte.

Xenia, accanto a me: “Hai dolore?” Strizzo gli occhi, ne escono lacrime. “Vuoi del fentanyl?”

‘Oppiacei, sì: qualsiasi cosa!’ penso. “Sei tu il medico” dico.

Inserisce la siringa nel tappo verde sul mio braccio. In pochi secondi il dolore si allontana dal mio cranio con cerchi centrifughi, il collo si rilassa appena. “Grazie” sussurro, gli occhi gonfi.

Ruben, mi saluta: “Ciao, tutto bene?”

Guardo verso la parete bianca alle mie spalle, collo rigido. “Insomma”, accenno un sorriso, “ci sono stati giorni migliori”.

“Ti porto in TAC” mi dice come se mi stesse invitando a prendere un caffè, solleva la spondina a destra, gira attorno alla barella, solleva la spondina a sinistra.

Ecco: sono dall’altra parte. Dall’altra parte della spondina.

Mi sento spostare e qualcosa si sposta anche dentro, come un’onda che dalla pancia sale al petto e poi si blocca in gola. Paura.

La barella scorre nel corridoio veloce come i miei pensieri.

‘Cosa ci sarà? Ho una emorragia? Mi opereranno? Andrò a casa?’ Gli occhi sbarrati, lo sguardo rivolto forzatamente in su.

Ma quanto sono sporchi i soffitti dell’ospedale?

Cavolo! Chi se ne importa? Mica ti metti a guardare il soffitto quando vieni qui!

Quando vieni coi tuoi piedi no, ma se viaggi orizzontale, il soffitto è la tua migliore prospettiva. Se poi hai un’irritazione meningea, l’unico paesaggio che hai a disposizione è proprio il soffitto.

L’ospedale è per i pazienti! Molti si muovono orizzontalmente qua dentro. I soffitti sono per loro. Dovrebbero dipingerli con fiori e colori, coprire le macchie, schermare le luci, riparare i buchi.

Arrivo in sala TAC. Il tecnico profuma di buono.

Viola è con suo padre, in reparto. ‘Avrà fame? Quando tornerò da lei?’ Preoccupazione.

Finita la TAC.

“Non ti muovere: facciamo tutto noi” Mi rimettono sulla barella, avvolta nel lenzuolo bianco, come un cadavere nel sudario.

Sono diventata una malata. Non DEVO fare nulla, non POSSO fare nulla, anche se potrei. Devo obbedire e lasciarmi accudire. Comincio a prendere le distanze dal mio corpo, mi pare già alieno, pesante e impotente. Sta tutto nella mia testa, io tutta sto nella mia testa; quella testa in cui qualcosa non sta funzionando, facendomi sentire come se avessi il cranio in uno schiaccianoci, mentre qualcuno si appende al mio midollo spinale.

Torno al box.

Xenia: “Hai pneumoencefalo”. Ho aria nel cervello.

Mantengo la calma. Ma quella cosa che prima si era fermata in gola, la paura, ora si dilata, silenziosa, verso la testa, poi lungo il corpo, prende il posto della mia faccia.

“Ora sento il neurochirurgo”. Mi stringe il braccio tra le sbarre della spondina.

Il soffitto è bianco come un foglio, ci disegno me stessa orizzontale infilata in una ambulanza, diretta a un altro ospedale. Mi vedo in sala operatoria di neuro, il cranio trapanato.

E Viola? Dove la disegno?

Mi interrompe Xenia: “Il neurochirurgo dice che si riassorbe, è poca quantità; per il

blood-patch consiglia di aspettare.”

Non ho certo fretta di farmi bucare di nuovo la schiena perché ci infilino il mio sangue. Cancello dal soffitto sala operatoria e cranio trapanato.

“Ti ricovero, dopodomani ripeti la TAC”. Mi somministra altro oppiaceo. Mi lascia, chiude la tenda che mi separa dai miei colleghi.

Non sono una di loro, ora: sono dall’altra parte. Sola.

Guardo quel bianco soffitto sommersa dai miei pensieri. Panico. “Xenia!”, la richiamo, “cerca Silvina, per favore”.

Soffoco.

Lei arriva, la mia amica ginecologa, scoppio a piangere. Parla con me, una mezz’ora, mi stringe la mano tra le sbarre della spondina, mi rassicura, mi sorride. La droga fa effetto.

Ruben mi porta in stanza. Trovo mio marito, gli occhi lucidi e Viola in braccio: “Dorme, ha mangiato. Come stai?”

Lo guardo e non rispondo. Rivedo nei suoi occhi la scena, mentre i miei si riempiono di lacrime…

Era la notte del parto. “Chiamate l’anestesista per l’epidurale!”

Anna era nervosa: doveva pungere una collega e moglie di collega. Primo buco nella lombare, ago dentro, ago fuori. Il catetere non va, “Laura, sta’ ferma!”

Io, immobile, rigida come uno stoccafisso, avvolta nei cerchi infuocati del dolore assoluto, attendevo fiduciosa. Secondo buco, dentro, fuori: il catetere non va.

Dentro, fuori. Finalmente va.

Una fitta alla testa. ‘Suggestione’ penso. E mi dico: ‘Qualsiasi cosa succeda, basta che tolga il dolore’.

E ora siamo io e questo casco di due taglie più piccolo che opprime il mio cranio, non appena accenno ad alzare la testa.

La teoria la so. Quante ne ho viste di cefalee da puntura durale? Ma ora ci sono io dietro a questa spondina. E, caspita, quanto appaiono grandi le persone al di là di essa, viste da qua. Sono tutti dei giganti in uniforme. Con i volti buoni di chi lavora ogni giorno con me, gomito a gomito. Si preoccupano per me, la loro collega.

Ma ora sono solo una paziente.

Il mio corpo si separa da me, un corpo che in pochi giorni tenta di riprendere le forme di nove mesi fa, e che ora è anche al servizio di una nuova creatura.

Avere una neonata e non poterla prendere in braccio. La tengo qui, accanto a me, piccola, indifesa, totalmente dipendente.

Come me.

Suo padre si occupa di lei e di me, per tutto. Non sapevo che il pudore finisce dove iniziano il bisogno e l’amore.

Il mio corpo non mi appartiene più.

Entrano a vedermi, colleghi e alte cariche dell’ospedale, a salutare, informarsi, rassicurare.

“Dai, che presto finirà, non è grave”.

Ma qui, ad allattare, da un lato, dall’altro, senza potermi fare una doccia, o alzarmi per andare in bagno, sanguinando, ci sono io. Io, coi seni dolenti, il collo rigido, la flebite al braccio. Sono io a disagio.

Sono io, avvolta nel sudore d’agosto, su lenzuola troppo corte, che scoprono il materasso di plastica. Si appiccica alla pelle.

Nessuno sa davvero quanto siano scomodi questi letti?

Sorseggio con una cannuccia una brodaglia insipida in cui galleggiano stelline di pastina mollicce. Mi chiedo come si può somministrare questo cibo a chi già sta soffrendo. A chi ha bisogno di energie e, soprattutto, di vincere la propria malattia. Mi fa male la pancia, da quanto è cattivo ciò che mangio. ‘Devo dirlo al Direttore Medico. I pazienti si curano anche col buonumore: questo cibo è deprimente’.

Non vedi bene tutto, quando sei dalla parte giusta. Te ne accorgi stando dall’altra parte della spondina, di come sono le cose, di quello che manca, di ciò che è di troppo.

Dall’altra parte della spondina ci sono stata cinque giorni, fino a che l’aria ha lasciato in parte il mio cervello e il sangue iniettato nella colonna lombare ha tappato quei buchi.

Ho pianto lo sconcerto e il dolore, mi sono frustrata per l’impotenza, tra scomodità e paura.

Come persona, come madre, me lo sarei evitato davvero.

Ma tutto sommato, come medico, passare dì là mi avrà fatto bene.

Per ricordare, poi, tornando dalla parte giusta, che dall’altra parte della spondina c’è proprio un essere umano.