Storie

Un angelo senza ali: Sara
di GIOVANNI TOMASSINI

Di Giovanni Tomassini, ex dirigente pediatra neonatologo, ora in pensione e scrittore a tempo pieno.

Il sole stava terminando il suo lavoro giornaliero ed Il lungo serpente metallico, lentamente, si rimetteva in moto. Ero quasi in ritardo a causa di un incidente avvenuto sulla Via Aurelia. Avevo goduto delle mie ferie fino all’ultimo minuto possibile, ma non avevo calcolato questo imprevisto. Nonostante tutto, riuscii ad arrivare in tempo per la mia guardia notturna di Ferragosto. Eh si non è da tutti terminare le ferie in concomitanza con la festività, ma in ospedale ci si abitua in fretta; non era la prima e non sarebbe stata l’ultima. Una volta rimasi in turno di guardia per 40 ore a Natale perché il collega che doveva darmi il cambio si era rotto una gamba. Incerti del mestiere. La collega a cui davo il cambio era già vestita ed aveva fretta di andarsene: “Ho la nave alle 23. Qui nulla da segnalare scappo“. Punto. Mai consegna fu più veloce, ma in effetti c’era poco da consegnare. I parenti in visita ai ricoverati stavano uscendo alla spicciolata, il portiere insieme alla guardia giurata ed ai portantini del pronto soccorso erano alle prese con enormi fette di cocomero ed il medico di guardia era nella sua camera davanti al tenente Colombo. Si prospettava un prolungamento dell’inattività di altre dodici ore. Anche nel mio reparto la situazione era tranquilla. Dodici neonati presenti al nido e solo due gravide in travaglio, pure abbastanza indietro. Il collega ginecologo stava fumando una sigaretta sul ballatoio rimirando la notevole luna piena.

Non vorrei dirlo, per scaramanzia, ma è la prima volta in venti anni che, nonostante ‘sta luna il travaglio è semivuoto” fece. “E’ il segno dei tempi” gli risposi “E’ colpa di voi ginecologi che lavorate di più per non farli nascere“. Ritornai al nido per controllare che tutto procedesse. I neonati dormivano come angioletti e le puericultrici avevano approfittato per cucinare qualcosa. Mi accodai, invitato. Appena terminata l’ultima forchettata di amatriciana, un’ostetrica ci avvertì che era entrata in travaglio una secondigravida, a dilatazione completa. Un’ora al massimo ed avrebbe partorito. Non avendo altre incombenze, l’andai a conoscere. Era una ragazza, sui trent’anni, alla seconda gravidanza. “La prima è stata un incubo. Sono stata praticamente sei mesi a letto, prima per minaccia d’aborto, poi con vari altri problemi. Vomitavo in continuazione, non riuscivo ad alimentarmi decentemente, ma poi alla fine è nata una bella femminuccia e ho dimenticato subito tutto. Con questa, invece, è stato tutto diverso. Una gravidanza fantastica, non ho avuto mai il minimo disturbo e, quasi, non me ne sono accorta“.

Attaccata al monitor tra una contrazione e l’altra capivo che aveva voglia di parlare. Mi disse che lavorava come dirigente fisioterapista in un centro per la riabilitazione dei bambini Down ed era molto soddisfatta di fare un lavoro che le permettesse di vedere i continui progressi di questi bambini. Poi, quasi vergognandosi si confidò: “Stanotte ho fatto un sogno che mi ha fatto pensare tanto: ho sognato di partorire un bambino Down ed io ero annichilita, non avevo la forza di accarezzarlo ero paralizzata, lo rifiutavo. Un incubo. Mi sono svegliata in preda al panico, poi quando ho realizzato che era solo un sogno, pensavo di essermi tranquillizzata ed invece sono precipitata in una malinconia profonda perché questo incubo ha spazzato via tutte le mie certezze. Fino ad oggi avevo sempre pensato che se malauguratamente mi fosse nato un figlio Down, lo avrei amato come l’altra, nella stessa misura ed è per questo che ho rinunciato a fare l’amniocentesi: non ne vedevo il motivo, oltre a poter rischiare la perdita del bambino. Ora ho un brutto presentimento, dottore“. La rassicurai dicendole che i brutti sogni non sono altro che il frutto delle nostre paure e le consigliai di concentrarsi completamente sul parto imminente. “Grazie. Ah io mi chiamo Sara”.

Partorì un’ora dopo, velocemente e senza troppo soffrire. Ma la sofferenza venne dopo. Assistendola sul lettino dell’isola neonatale, mi accorsi subito che qualcosa non andava: la bambina piangeva, ma il suo pianto aveva un timbro diverso dal solito e poi la lunghezza degli arti, la plica nucale, la conformazione del massiccio facciale, la protrusione della lingua erano segni, purtroppo, che mi confermavano quella diagnosi che avevo fatto altre volte: Sindrome di Down!
Ero lì con il sondino in mano, ripulendola dalle secrezioni meccanicamente e con molta lentezza, in realtà organizzavo mentalmente quello che avrei detto alla mamma. Avvolsi la neonata con un asciugamano, lasciando visibile solo parte del viso e gliela portai. Sara, sul letto da parto, era ancora oggetto delle manovre post-partum, vedevo che era visibilmente affaticata, per cui, dopo aver risposto alla solita domanda se la bambina stesse bene, la portai al nido “sennò si raffredda“.

Avrei atteso che Sara si fosse riposata per comunicarle il mio sospetto. Non avevo bisogno dell’esame genetico per la diagnosi, talmente facile in questo caso, ma non di meno, ritenevo e ritengo che occorra sempre prudenza nel parlare con il paziente per evitare complicazioni peggiori della malattia e, se va bene, figure di m… La prudenza non significa dare false speranze, ma neanche presunte verità.
Sara era stata lasciata nella stanza singola del travaglio e mi aspettava con ansia come se avesse presagito qualcosa, come se rivivesse nella realtà il sogno premonitore. Era sola. Mi sedetti vicino a lei e le presi la mano, me la strinse forte da farmi male. Aveva capito tutto: “È Down, vero?”. La fissai negli occhi ma non risposi. Le lacrime le rigavano il viso. Di fronte a quella donna mi sentivo inadeguato come anche le parole che in queste occasioni usavo per instillare perlomeno il dubbio che solo l’esame cromosomico avrebbe risolto. Mi trovavo davanti a una donna che conosceva il problema meglio di me, che già sapeva le parole che avrei usato per tranquillizzarla, per coccolarla, per prendere tempo. Mi lasciò la mano, chiuse gli occhi e non disse più nulla.
La mattina dopo venni informato da un’ostetrica che Sara se n’era andata senza riconoscere la bambina, senza averla voluta vedere. Seppi poi che, non ostante non fosse pienamente legale, era riuscita non so come a far cancellare il suo nominativo dal registro dei ricoveri e quindi la piccola risultava figlia di “donna che non vuole essere nominata”.

La piccola rimase nel nido in attesa che il giudice tutelare nominato dal Tribunale dei minori decidesse per l’adottabilità. L’ostetrica di turno quella notte provvide a registrarla con nome e cognome deciso da lei e dall’ufficiale dell’Anagrafe. Venne chiamata Cristina. Ci affezionammo tutti a quella pupattola che comunque cresceva bene. Dopo qualche mese pareva Gulliver in mezzo ai Lillipuziani. Ogni tanto una coppia di candidati all’adozione, segnalati dal giudice, veniva a trovarci. Sapevamo che prima o poi ci saremmo dovuti separare, e questo ci spezzava il cuore, ma era giusto così. Finalmente poco prima di Natale il giudice mi telefonò per dirmi che aveva scelto la coppia giusta per Cristina. “Meno male” pensai anche se l’aggettivo giusta io l’avrei usato solo per la madre naturale. Ma così è la vita. Sarebbero venuti a prenderla la vigilia di Natale.

Il 24 è sempre un giorno di festa, anche in Ospedale. Nel mio reparto, la Pediatria, è ancora più bello. Vedere i bambini, pur malati, attendere Babbo Natale non ha prezzo. E poi il presepe, le musiche, le infermiere travestite da elfi, tutto crea l’atmosfera. Cristina era ovviamente al centro dell’attenzione di tutti. Per lei era arrivato il gran giorno. Sarebbe stato il più bel regalo di Natale per i suoi genitori che stavano per arrivare.
Le favole terminano sempre con “… e vissero tutti felici e contenti“. Purtroppo nella vita reale non è così, altrimenti sarebbe… una favola. Per fortuna a volte, raramente, la realtà è una favola. Mi trovai davanti la madre “giusta”. Mi venne incontro Sara insieme al marito e l’altra figlia. Mi strinse la mano sorridendomi. Disse solo “Grazie”. Confuso e commosso anch’io non dissi nulla, anzi sparii dalla festa per una presunta chiamata dal pronto soccorso. A distanza di tanti anni, quando ripenso a quell’episodio non posso fare a meno di pensare che, in fondo, i miracoli esistono, se solo facciamo qualcosa perché si avverino.